di Alessandro Pilo
Storia di un ortaggio tanto bistrattato quanto essenziale nella nostra cultura”
Durante la primavera del lockdown, varie testate si sono soffermate su un trend gastronomico inaspettato: chiuse in casa, le persone stavano consumando cavoli in gran quantità, come ci ha mostrato Google Trends. L’umile cavolo, da sempre bistrattato e associato al mondo contadino, rimedio di chi non aveva altro da mettere nel piatto, finalmente si stava prendendo la sua rivincita.
Medioevo
In passato gli ortaggi e i legumi erano alimenti da villani, vero, anche se nella tradizione culinaria medievale la distinzione tra cibi nobili e cibi popolari era tutt’altro che netta. Non a caso il Liber de coquina, il trattato tardomedievale di cucina scritto nella Napoli angioina, l’equivalente del tempo di un libro di Benedetta Parodi rivolto alle corti signorili, annoverava ricette a base di ortaggi e legumi, inclusi “cavoli delicati ad uso dei signori”. Perfino gli ingredienti più umili potevano diventare degni delle migliori tavole, se spolverati con spezie pregiate o accompagnati da tagli di carne costosi. Va detto inoltre che, al tempo, sentire il sapore del cavolo in un piatto di nobili era un’impresa; la cucina italiana era infatti una cucina di sintesi, in cui il sapore dei singoli ingredienti non si doveva riconoscere, ecco spiegato il ruolo predominante delle spezie.
Solo a partire dal XVI secolo iniziò ad affermarsi la tradizione francese della cucina analitica. Nicolas de Bonnefons, uomo di corte della metà del XVII secolo e autore di un bestseller culinario del tempo, sosteneva: “la zuppa di cavolo deve sapere di cavolo, il porro di porro, la rapa di rapa”. Una frase che, oggigiorno, suona come banale buonsenso, ma che, al tempo, aveva una portata rivoluzionaria. Questo dovrebbe servire a ricordarci che le nostre papille gustative, più che ai sapori, sono sensibili alla moda e ai trend.
E se fossimo conosciuti nel mondo per la nostra tradizione culinaria basata su broccoli e cavolfiori?
Magari in un universo parallelo è proprio così. Le ricerche dello storico Michele Sereni hanno mostrano che fino al XVII secolo questi ortaggi erano così presenti nelle tavole meridionali, abbinati con la carne, che i napoletani, al tempo, venivano soprannominati “mangiafoglie”. Fu l’aumento delle tasse da parte dei viceré spagnoli del Seicento a cambiare la dieta dei cittadini partenopei. Riducendosi il consumo di carne, diventata ormai troppo costosa, l’abbinamento foglia-carne non aveva più ragione di esistere.
Ma per una storia d’amore gastronomica che finisce, un’altra nasce: grazie all’invenzione e alla diffusione del torchio da pastaio, si affermò il connubio tra la Campania e la pasta. Furono infatti gli economici maccheroni col formaggio a diventare il nuovo piatto quotidiano sulle tavole napoletane. Per il sugo al pomodoro, bisognerà però aspettare ancora due secoli.
Crauti e vitamina C
Ciò non vuol dire che le alterne vicende del cavolo finiscano qui. Certo, la pasta gli aveva fatto le scarpe, ma quest’umile ortaggio, per vendicarsi, potrebbe benissimo ribattere che di lì a poco sarebbe diventato un pioniere dei super food e avrebbe viaggiato il mondo in lungo e in largo. Fino a quel momento le navigazioni oceaniche erano flagellate dallo scorbuto, la terribile malattia che colpiva i marinai che avevano una dieta povera e priva di vitamina C.
Solo intorno alla metà del Settecento il medico navale scozzese James Lind si rese conto che i marinai malati si riprendevano rapidamente dopo aver assunto degli agrumi. Peccato che mantenerli per mesi non fosse affatto semplice. La soluzione? Crauti, ricchi di vitamina C e facili da conservare grazie alla fermentazione. Non c’è da stupirsi se il capitano James Cook, quando salpò nel 1768 diretto verso il Pacifico del Sud per una spedizione esplorativa lunga tre anni, si portò dietro 3,5 tonnellate di cavoli fermentati.
Già, i crauti, nel nostro immaginario l’alimento tedesco per eccellenza. Peccato che per via del dominio asburgico fossero comuni anche in Friuli Venezia Giulia, nell’alto Veneto e nel Trentino Alto Adige, apprezzati soprattutto dalla povera gente di montagna esposta alla mancanza di verdura fresca durante l’inverno. E se iniziassimo a considerarli parte del patrimonio culinario nostrano? In fondo non sono meno italiani della cotoletta alla milanese, che altro non è che l’asburgica Wienerschnitzel sotto mentite spoglie.
Modi di dire
Oltre a finire in pentola, il cavolo compare di frequente tra le nostre parole, in modi di dire spesso poco lusinghieri. Il motivo non è del tutto chiaro; c’è chi sostiene che in “col cavolo” e in “fatti i cavoli tuoi” l’ortaggio venga usato solo per via dell’assonanza con un’altra parola meno nobile, mentre per Francesco Lo Piparo, filosofo del linguaggio e professore all’università di Palermo, il termine deriva dal greco kaulos e significa fusto o stelo, ed ecco qui la relazione con l’organo sessuale maschile. E i bambini che nascono sotto i cavoli? Anche in questo caso non c’è certezza, ma visto che alcuni tipi di cavoli sono sferici come una testa che spunta dalla madre terra, possono far pensare a un bimbo che esce dal grembo materno. Mentre per il detto “come i cavoli a merenda” sembra esserci maggiore consenso: si usa perché il cavolo è considerato un po’ difficile da digerire e poco gradevole quando viene riscaldato, per questo non si presta di certo a essere l’alimento ideale per uno spuntino leggero.
Dopo tutti questi insulti e bassezze, è arrivato il momento di dirlo: ode al cavolo, bistrattato e sbeffeggiato, ma alimento fondamentale della cultura occidentale.
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