di Alessandro Pilo
Sarà che l’ora dello snack, il pasto della giornata a cui diamo spesso meno importanza, è sorprendentemente quello che può dirci di più su com’è cambiata, e cambia, la nostra società?”
Un famoso spot pubblicitario con cui è cresciuta la mia generazione racconta di un inevitabile momento a cavallo tra i pasti in cui non ci si vede più dalla fame. Quel momento, noto fin dal Medioevo col nome di merenda, era un attimo di riposo e ristoro tra pranzo e cena, che andava però guadagnato col lavoro. Non a caso la parola “merenda” deriva dal latino “meritare”.
Le cose sembrano un po’ cambiate da allora: tanto la merenda d’un tempo era un momento quasi rituale, quanto lo snack odierno, per la sua convenienza e facile reperibilità, per certi versi la banalizza: basta sentire un languorino e la mano raggiunge subito qualcosa con cui calmarlo. Tanto meglio se senza interrompere il tempo produttivo e restando seduti davanti al computer.
Preconfezionato
Più di tutti, lo snack preconfezionato, diventato un fenomeno di massa a partire dagli anni Cinquanta negli Stati Uniti, è il pasto rappresentativo dei tempi moderni. Al punto da sostituire spesso il pranzo stesso, visto che sfamarsi può persino diventare una seccatura che ci distoglie da attività ritenute più urgenti. Per certi versi consumare uno spuntino, nella nostra società occidentale, può anche non aver niente a che vedere con l’appetito, dato che la sua funzione può essere semplicemente coprire un vuoto di tempo in cui non si sa che cos’altro fare, un po’ come accendere una sigaretta fa notare Cinzia Scaffidi, docente dell’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo. Tuttavia non bisogna incorrere nell’errore di giudicare gli snack odierni come cibi sterili e privi di una funzione sociale: quando dei giovani condividono un tubo di Pringles c’è una forte dimensione comunitaria, che non va affatto sottovalutata. È innegabile però che, rispetto al passato, l’alimento condiviso è più povero di nutrienti, valutato più per la marca, il brand.
Giudizio generazionale
Se in passato lo snack era un prodotto artigianale e diversificato regionalmente, a partire dagli anni Sessanta sono diventate di casa anche in Italia delle versioni industriali dello spuntino che col tempo sono diventate iconiche, dal Buondì alla Fiesta. Poco o tanto, questi prodotti li abbiamo mangiati tutti e per questo anche chi segue una dieta priva di prodotti preconfezionati sentirà emozioni contrastanti davanti a un Tegolino: Ci affezioniamo alle cose che accompagnano determinate fasi della nostra vita, che magari ci ricordano la nostra giovinezza ed entrano pertanto nella nostra storia. In passato un primo amore poteva venire associato al cogliere insieme ciliegie dall’albero, condividere un piatto di spaghetti o la focaccia di un panettiere, per le generazioni successive al mangiare insieme una Crostatina o un Cornetto fa notare Scaffidi. In altre parole il nostro giudizio su questi prodotti è sempre un po’ generazionale: forse per un millennial fra trent’anni la madeleine proustiana avrà la forma di un Kinder Pinguì?
Inversione di tendenza
È innegabile però che rispetto agli anni Ottanta e Novanta, dopo tanti scandali alimentari, ci sia stata una brusca inversione di tendenza e la consapevolezza dei consumatori su cosa significa mangiare sano sia aumentata esponenzialmente, di pari passo con la domanda per snack più ecologici e salutisti. Di certo i social media hanno giocato un ruolo importante: grazie a essi le aziende possono tastare il polso del mercato in tempo reale e comportarsi di conseguenza, magari anche aggiustando in corsa le ricette. Gli esempi più evidenti sono la rapida veganizzazione di molte merendine, o un caso ancora più famoso, la sostituzione dell’olio di palma negli ingredienti di tanti snack. Un chiaro segnale di come i consumatori abbiano ancora il potere di orientare le scelte delle aziende.
Il ruolo della donna
Tanti detrattori degli snack industriali, pur mettendone in discussione la qualità nutritive, concedono loro però un merito: quello di aver contribuito a emancipare le donne, o perlomeno di aver reso la vita un po’ più facile a quelle che entravano a far parte della forza lavorativa. Ma è davvero così? Cinzia Scaffidi è convinta che questo mito sia frutto della pervasiva narrazione delle marche produttrici: Preparare una torta costa molto meno rispetto all’acquisto di un pacco di merendine, solo che per farlo ci vogliono due cose, competenza e tempo. L’industria alimentare, attraverso la pubblicità, prova a convincerci che è in grado di offrire prodotti in tutto simili a quelli artigianali e che ci fanno risparmiare del tempo, ma per risparmiarlo bisogna lavorare e guadagnare dei soldi, quindi il tempo lo abbiamo già utilizzato. Dove sarebbe quindi il risparmio? Insomma, malgrado il furbo e rassicurante storytelling delle industrie alimentari, sotto molti aspetti in questa transizione sociale è più ciò che si perde che ciò che si guadagna. Scaffidi fa inoltre notare che in questa narrazione sessista è sempre la donna l’incaricata della preparazione della merenda; è soltanto lei quella sollevata dall’onere della preparazione dello snack casalingo. Cosa che in una coppia moderna dovrebbe ormai apparire inaccettabile.
Sarà che l’ora dello snack, il pasto della giornata a cui diamo spesso meno importanza, è sorprendentemente quello che può dirci di più su com’è cambiata, e cambia, la nostra società?
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