di Grazia Cacciola
Viviamo in un mondo globalizzato, è un dato di fatto. Ci sono persone che viaggiano consumando una colazione a base di caffè e pancake a New York, pranzano con una pizza a Milano e cenano con platano arrostito su una spiaggia di Cuba. Il mondo, grazie alla facilità estrema con cui oggi si possono raggiungere altri continenti, si offre nella sua vasta diversità di sapori e cucine, che poi ognuno riporta a casa e reinterpreta.
Ma non è un aspetto che riguarda solo la globalizzazione: mangiare è un bisogno primario, l’uomo si è sempre interessato a come si alimentano i suoi simili, spesso adottando procedimenti e alimenti, introducendoli nel proprio paese. La polenta, nelle sue diverse varianti, considerata piatto tipico del Nord Italia, in realtà non esisteva fino alla metà del 1600, quando fu importato il mais e si iniziò a coltivarlo anche nel nostro paese. Sorrido sempre davanti alle pretese di purismo di alcuni chef nei confronti del risotto, nato invece come piatto povero, legato a un’economia di base in cui si buttava nella pentola del riso tutto ciò che si aveva, tirandone fuori un pasto.
Spesso può essere difficile tracciare un confine tra ciò che è veramente “tradizionale” e quanto di una cultura alimentare è stato influenzato da forze esterne. Se oggi in Toscana propongono il risotto alla milanese in una versione molto più sana, con soffritto a base di olio, noi inorridiamo e invochiamo la tradizione… una tradizione che ha storia breve! Infatti si tratta di un alimento asiatico, che arrivò inizialmente nella Firenze dei mercanti. Poi parliamo anche di una “giovane” ricetta del 1574, niente a che vedere con i quattro millenni di storia del riso cinese. In Italia però proponiamo “riso cantonese” che nella cucina cinese non esiste. A questo punto, meglio se lasciamo che altri facciano il risotto alla milanese con un ottimo riso integrale e con l’olio: è la salute a guadagnarci. Un altro esempio? Un piatto come il cous cous, che a Milano suona ancora come una pietanza esotica proveniente dal Marocco o dalla Tunisia, in Sicilia rientra nella cucina tipica locale da centinaia di anni.
Stiamo evolvendo, senz’altro più velocemente, ma senza fare nulla di diverso da quello che abbiamo fatto nel corso dei millenni: osservare curiosi, importare, lasciarci contaminare.
Dal commercio del pepe nero degli antichi Romani all’introduzione delle patate dal Nuovo Mondo fino alla riscoperta della cucina inglese – perché, i britannici hanno una cucina?! Ebbene sì! – i nuovi sapori e le tecniche di cottura sono stati spesso incorporati nelle cucine come un modo per aggiungere un po’ di attrattiva. Ciò a cui stiamo assistendo negli ultimi anni e che sarà il trend del futuro è che oltre all’interesse e al gusto si privilegia la ricerca della salute, del cibo che può nutrire in senso più ampio del riempire momentaneamente la pancia. Allora vediamo arrivare alimenti benefici, utilizzati da secoli in altre culture e introdotti per il nostro benessere. Negli ultimi vent’anni abbiamo visto arrivare così la stevia, l’okra, l’avocado ma anche i maki giapponesi, un’ottima soluzione per consumare riso e alghe, due alimenti eccellenti per la salute.
Il futuro? Continuerà a essere un grande melting pot, perché è nella nostra natura. Fra i trend che si stanno imponendo, ci sono i cibi fermentati in casa o al ristorante, che in America sono presenti da diversi anni. Farsi i propri crauti, il kimchi, il kombucha, il kefir o anche solo la propria giardiniera fermentata è già una moda sanissima ed entusiasmante. Una riscoperta di sapori veri, corposi, che cancellano i gusti dell’inscatolato industriale.
L’altro grande movimento sarà verso gli alimenti sostitutivi del grano, sempre meno utilizzato. Dalla riscoperta di cereali antichi, alcuni senza glutine, fino all’adozione di piatti dall’Est europeo, che ne è ricco. Un esempio su tutti il kaša russo, a base di grano saraceno, un piatto unico senza glutine e ricco di antiossidanti che sta comparendo tra le food blogger americane, che ormai dettano tendenza anche agli chef stellati, con buona pace del nostro Visintin che le chiama “Erinni taccute, armate di Twitter”.
Oggi però, nel nostro mondo globalizzato, non sono solo i pezzi della cucina che viaggiano, sotto forma di ingredienti o di singole ricette, ma l’intera cucina nel suo insieme. Gli immigrati portano con sé le loro culture alimentari tradizionali, i viaggiatori cercano i sapori che hanno incontrato in altri paesi; trovare cibo etnico da tutto il mondo è facile nella maggior parte delle grandi città e questo cibo è spesso vegan. Quello del cibo vegan in particolare è un trend in forte crescita da anni. Le statistiche americane, secondo Nielsen e Good Food Institute, riportate dall’articolo della food writer Janet Forgrieve su Forbes del novembre 2018, The Growing Acceptance of Veganism, mostrano che solo nel 2017 l’acquisto di sostituti vegetali della carne è aumentato del 17% in un panorama in cui il consumo generale di alimenti è aumentato solo del 2%. Si tratta di un cambiamento epocale, che continua a crescere. Attualmente, secondo le stesse fonti, il mercato americano dei sostituti della carne si attesta sui 3,7 bilioni di dollari.
Man mano che il nostro mondo diventa sempre più connesso, la cultura del cibo non è più legata solo alla sua origine ma anche alla scoperta del gusto e alle implicazioni salutiste, ecologiste e antispeciste. Questi ultimi due aspetti sono del tutto nuovi e stanno entrando finalmente con prepotenza nell’evoluzione alimentare, al punto che iniziamo ad assistere a un fenomeno per il quale un ristorante stellato che non offra scelte vegan viene percepito come vecchio o provinciale. Nel 2018 la storica e blasonata Guida Michelin ha inserito il primo ristorante completamente vegano: Vero Restaurant, a Varese. La loro cucina, non a caso, è una commistione di tradizioni provenienti da tutto il mondo, reinterpretate in chiave italiana.