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Il Messico: dagli sciamani ai guerrieri Maya

by fvadmin 21 Gennaio 2020
21 Gennaio 2020

Un viaggio per ogni spirito… libero”

di Fabrizio Mezzo

Non conta atterrare a Città del Messico o Cancún o San José. Sei in Messico e sei felice, stai già bene, sei già in vacanza. A prescindere dalla città di arrivo. Te ne accorgi appena passata la frontiera dove ti controllano accuratamente il passaporto con uno scrupolo quasi americano, ma in realtà vorrebbero già abbracciarti, fare fiesta; ti sorridono mentre timbrano e fanno le domande di rito. Poi arrivi alla roulette dei bagagli. Sì, perché dopo averli ritirati, prima di uscire dall’aeroporto, ti fermi a un semaforo. Se è verde, tutto ok, si esce verso i taxi o i transfer. Se è rosso, “Ahi ahi ahiahi caballeros, abre su maleta por favor”. E ti tocca far vedere che non stai portando nulla di proibito nel paese. Ma il controllo è fatto col sorriso, se pur seriamente, mica come a Heathrow, dove se potessero ti aprirebbero pure la pancia con un uncino tra sguardi di ferrea intransigenza. In Messico anche i controlli (a meno di sospetti o di forti infrazioni alla legge) sono svolti con gentilezza, perché la prima impressione che vogliono trasmettere è quella di farti sentire benvenuto.

Il Messico ne ha passate tante. E sa cosa vuol dire accogliere con calore, con allegria, con una spensierata voglia di vivere nonostante le tante difficoltà di questi tempi e la povertà di molte città; una condizione vissuta però con forte orgoglio, grande dignità e ostentata volontà di rivalsa. Per questo ogni viaggio in Messico è una scoperta, dovunque si voglia andare.
Intanto cancelliamo l’idea che il Messico sia uno stato, sarebbe più appropriato parlare di Stati Uniti del Messico, ovvero stati che si sono confederati sotto un’unica bandiera, ma restano profondamente differenti tra loro per tradizioni, musica, cibo, cultura, etnie. Ecco allora che un viaggio in Messico va costruito in funzione delle proprie esigenze e dei propri gusti.

In Messico ci si torna, perché la vastità e la diversità ti ispirano la voglia di conoscere tutto: dal mare agli altopiani fino alle montagne. Così si diventa curiosi di visitare Durango, uno stato ancora inesplorato dalle masse e attento al patrimonio naturale e culturale; oppure Monterrey e lo stato di Chihuahua, dove si possono ancora ammirare le montagne incontaminate della Sierra Madre e il viaggio si adatta allo spirito di ecosostenibilità, di incontro con la popolazione locale nel modo più tradizionale e genuino: sono infatti poche le strutture ricettive alberghiere tipiche, almeno per come può intenderle chi è abituato a fare il turista più che il viaggiatore o l’esploratore. Copper Canyon è imperdibile: formato da sei fiumi che si congiungono via via lungo il percorso nel Rio Fuerte, che scorre fino al Golfo del Messico, il canyon è una scoperta continua da fare a piedi o a cavallo, come i veri cowboy, in territori che sembrano creati ad arte a Hollywood e che invece nell’area centrale sono la realtà quotidiana. Monterrey in particolare è chiamata la Città delle Montagne o la E poi, naturalmente, Città del Messico, a 2200 metri sul livello del mare, maestosa, barocca, lussuosissima oppure estremamente povera a seconda dei quartieri. Da visitare sempre, ma particolarmente affascinante durante la Festa dei Morti portata sul grande schermo da 007 e adesso replicata per i turisti che non vedono l’ora di respirarne lo spirito commerciale (il rito originale del Día de Muertos non nasce nella capitale ma a Oaxaca), guardando negli occhi vuoti i calaveras, i teschi di zucchero che vengono colorati e personalizzati in mille fogge in un’allegoria di autentica gioia. Questo pittoresco culto discende da una tradizione antica e sincretica che celebra la vita attraverso il ricordo del giorno in cui la vita finisce. E per questo, a discapito della tristezza che potrebbe attanagliare gli animi, le celebrazioni sono improntate a feste, balli, musica e immancabili bicchieri di cervezas e tequila.

Spostandoci a sud verso la costa che si affaccia sull’Oceano Pacifico, facciamo un viaggio da Acapulco a Puerto Escondido, imprescindibili e sulla lista delle cose da fare e vedere in Messico, perché li conoscono un po’ tutti, tutti ne parlano e bisogna andarci almeno una volta nella vita per assaporarli on the road come nel film di Salvatores.

In questo giro del Messico c’è un posto che non ha nulla. Che non è nulla. Che esiste solo se si è disposti a rinunciare a collegamenti Internet, e-mail e telefoni: è Boca del Cielo, ancora più a sud sempre sulla costa pacifica. Desconocida al turismo di massa, è una delle spiagge più belle e incontaminate del paese, dove nidificano le tartarughe, urlano i gabbiani che ti volano addosso e pare di essere in un film di Hitchcock. Si beve tequila di scarsa qualità, ci si riposa in riva al mare in una posada da pochi dollari o in una cabaña con addosso solo shorts e costume da bagno, magari un pareo alla sera per quando tira il vento. È un posto di contemplazione del silenzio, del nulla appunto, o del tutto, del recupero del tempo per se stessi e i propri pensieri. Yoga al mattino, camminate al tramonto. Dopo le spiagge ci si addentra verso l’interno del Chiapas, a San Cristóbal, tra rovine Maya, giungla e giaguari. Ma la città non è tra le più sicure e il consiglio è di girare con prudenza tra case coloniche colorate, strade che ancora sono fatte di sassi e sabbia e ti portano in un Messico fuori dagli schemi dove i ragazzini vivono di espedienti.

In Italia adesso è inverno e il clima delle nostre città è tendenzialmente improntato dal fresco al freddo e alla neve a seconda della latitudine; è tempo di sognare caldo, sole, mare. Il Messico di cui parliamo ora è infatti quello che nell’immaginario collettivo riempie di cartoline colorate le scrivanie o i frigoriferi, le storie di Instagram e Facebook. È il Messico dei suoi mari.
Partiamo dalla Baja California, allora, e da Los Cabos, che da piccolo villaggio di pescatori è diventato meta di un turismo di élite per vip in cerca di tranquillità. Atterrare all’aeroporto di San José è già di per sé un’esperienza in questo senso. I grandi aerei delle compagnie di bandiera fanno infatti quasi fatica ad arrivare all’area di parcheggio perché devono zigzagare tra i jet privati dei miliardari che lungo la costa hanno costruito sontuose residenze e mansion degne dei migliori spot pubblicitari, usando l’aeroporto come “garage privato” per i voli intercontinentali.

Pochi chilometri di costa in transfer dall’aeroporto e si arriva al Cabo: il luogo è incantato. Il Mare di Cortés calmo e pacato si scontra poco dopo gli scogli con l’Oceano Pacifico, che di tale ha solo il nome. Una delle spiagge più famose da escursione, proprio dove l’oceano si incontra in una lingua di terra con il mare, è infatti chiamata in modo ironico “la spiaggia della separazione” e non per la divisione tra le due tipologie di acque, ma perché si dice che si scende dalla barca in coppia e, se non si sta attenti, si risale da soli perché uno dei due viene trascinato via dalla furia delle onde.

A Cabo San Lucas e San José del Cabo lo sport vacanziero più popolare è ammirare lo spettacolo maestoso delle balene che arrivano per svernare e partorire, dopo un viaggio di migliaia di chilometri. Il periodo migliore per vederle è da fine gennaio a fine marzo, quando le madri hanno già svezzato i piccoli nati a dicembre e nuotano con loro. Le escursioni si fanno in piccole barche oppure in velocissimi motoscafi (consigliati perché seguono i cetacei più velocemente e più da vicino) che appena avvistano il branco spengono i motori e, in assoluto silenzio, si lasciano dondolare dolcemente per non disturbare gli animali. Quando i motori si placano, le balene hanno voglia di giocare e la barca da escursione diventa la loro pallina o il loro cerchio da hula hoop; si avvicinano con delicatezza e a questo punto è consentito un attimo di panico quando mamma e piccolo escono di fianco al battello per poi rituffarsi in uno splash spettacolare, immergersi e riemergere dall’altro lato della barca, quasi in un saluto festoso indimenticabile. Terminata l’escursione, prima di tornare in hotel ci si tuffa metaforicamente nel porto turistico ricco di negozi tipici e di colorate atmosfere.

La Paz è invece il tentativo di creare un polo alternativo a Los Cabos. La città si pone come obiettivo la valorizzazione del Mare di Cortés, da alcuni ritenuto decisamente superiore anche al Mar Rosso, tanto che Cousteau di fronte alla ricchezza e alla bellezza di immersioni uniche lo chiamò “l’acquario del mondo”. Qui i sub possono immergersi in un piccolo paradiso dove è quasi sempre possibile incontrare creature che sbalordiscono e terrorizzano per dimensioni, come la balena grigia o lo squalo balena.
Ma la Baja California, meta anche dei tanti appassionati di golf che trovano campi meravigliosi con buche vista mare, non è solo spiaggia e hotel di lusso o ville che paiono uscite da un film americano.

Atterrati a Los Angeles, con una jeep presa a noleggio si può vivere un’avventura on the road verso Los Cabos che parte dal confine e da una città famosa o famigerata, ammaliante o pericolosa: Tijuana. Lasciata alle spalle la California, attraversato il confine in cui i gringos sorridono e ti augurano “Buen viaje y vaya con Dios, amigo”, il sole batte a picco sul vetro della jeep (meglio se aperta ma con il tettuccio di plastica ripiegabile perché qui il sole non scherza) mentre si percorrono le poche miglia verso la città simbolo di perdizione e avventura per eccellenza del Messico, raccontata e descritta in film, canzoni, romanzi, racconti, leggende. Be’, è tutto vero. Anzi, la realtà supera la fantasia, non per nulla è la città di frontiera più visitata al mondo. Camminare lungo le vie del centro significa vivere immersi in un melting pot di razze e culture che si incontrano e si perdono continuamente per ritrovarsi di sera nella Calle Sexta, quella della movida e dei divertimenti, delle nuove tendenze e delle discoteche. Ma la città è anche cultura di strada con immensi murales colorati o graffiti scavati nei muri; è avanguardia a ogni angolo dove gli artisti esprimono una creatività senza limiti e censure. È trasformazione urbanistica dove i vecchi mercati abbandonati diventano boutique artistiche come nel Pasaje Rodríguez. Però, dopo un giorno e una notte in un hotel rigorosamente di catena internazionale (perché ok che l’avventura è bella, ma la città non è proprio un modello di sicurezza) bisogna ripartire lungo la strada assolata che porta verso il Sud.

Il percorso da seguire è quello che corre parallelo alla costa. La prima città dove fare tappa è Ensenada, che detiene il primato della produzione messicana di vino. La città ha due anime: una commerciale e prettamente turistica, visto che vi attraccano anche le grandi navi da crociera, in contrasto con l’altra, decisamente naturalistica. Usciti in mare, infatti, gli incontri con gli squali bianchi sono la regola e non l’eccezione, così come, in stagione, quelli con le colonie di elefanti marini che scendono dall’Alaska per riprodursi al caldo.
La litoranea prosegue con paesaggi da cartolina a ogni curva perché, a differenza degli Stati Uniti dalle lunghe strade dritte, qui il percorso è sinuoso, ha ritmi di danza che assecondano lo spirito del paese e la striscia di cemento (attenzione a guidare su un materiale fatto per resistere al caldo, ma con meno tenuta di quanto siamo abituati in Europa) segue armonicamente la natura. E finalmente si arriva a Bahía Tortugas: spiagge iconiche bianche come le case con decori dorati; e naturalmente aree attrezzate per ogni sport: mountain bike, kayak, surf, tour in moto o in quad, jet ski o tranquille regate a vela nella baia. Un ultimo tratto di strada e siamo a Los Cabos, dove ci si gode la spiaggia o si va a giocare a golf!

Con un volo pindarico e non solo, arriviamo invece sull’altro mare, quello dei Caraibi e dello Yucatán. Per chi arriva dall’Italia, l’aeroporto di sbarco è Cancún perché Mérida, benché anch’essa servita a livello internazionale, è meno comoda per la Zona Hotelera. Da questi luoghi, il viaggio alla scoperta della civiltà Maya o di alcune delle spiagge più famose al mondo è solo una scelta individuale. Il consiglio è di mixare con accuratezza entrambe le possibilità.
Lo Yucatán è, insieme al Guatemala e al Chiapas, uno dei territori più ricchi di rovine e città Maya, coperte dalla giungla. Qui l’antica civiltà precolombiana ha lasciato tracce e segni evidenti di una cultura ancora tutta da scoprire: i loro calendari del Lungo computo, criptici e ciclici, che parlavano della fine del mondo o della fine di un ciclo il 12 dicembre 2012 (ne siamo usciti indenni!), le loro rune con tante parole ancora da decifrare, le piramidi simili a quelle egiziane poste su punti strategici. Come El Castillo, ad esempio, la piramide di Chichén Itzá che una volta (adesso non è più visitabile all’interno) permetteva di sperimentare un particolare effetto sonoro: battendo le mani si poteva sentire un suono simile al canto di un quetzal, l’uccello sacro ai Maya, grazie a un complicato sistema acustico di risonanze ideato dai costruttori. La piramide, dedicata al culto del Sole, funzionava come una gigantesca meridiana e ancora oggi, all’equinozio di primavera, uno straordinario gioco di ombre sul corpo della struttura delinea il profilo di un gigantesco serpente lungo la scalinata principale del tempio. I più fortunati, qualche anno fa, potevano assistere anche al fenomeno interno: la creazione di una perfetta divisione a metà degli spazi, in cui da una parte regnava il buio totale e dall’altra una luce quasi accecante. Sempre a Chichén Itzá, di grande bellezza anche il lato naturalistico con la visita al Cenote Sagrado, una delle grotte subacquee create dall’acqua dolce dei fiumi sotterranei messicani, dove inquieta un po’ l’atmosfera delle iscrizioni e dei disegni di un sito utilizzato a fini cerimoniali, probabilmente anche per compiervi sacrifici umani.

Altro sito assolutamente da vedere è Uxmal, a nord della penisola. Meno famoso di Chichén Itzá, ma forse per questo ancor più intrigante, sorge in mezzo a una foresta da cui emerge una delle piramidi più imponenti dell’area. Poi, attraverso una lunga strada che buca anche la giungla e permette di vedere i tipici villaggi messicani (il bus dell’escursione si fermerà più volte: le galline in mezzo alla strada qui hanno la precedenza, così come i cani che corrono liberi o i bambini che giocano tra una capanna e l’altra), si arriva all’oasi di Río Lagartos, una biosfera naturale patrimonio dell’umanità. I coralli rendono l’acqua rosa e i fenicotteri vivono e si riproducono in piena libertà. Vale la pena affittare una barca e andare all’oasi di sabbia in mezzo alla laguna per ammirare da una parte lo spettacolo dei granchi e di stranissime creature che si rincorrono sulla spiaggia e dall’altra gli uccelli che volano intorno alle barche, incuranti del rumore e quasi curiosi degli ospiti.

I siti appena scoperti sono moltissimi: i satelliti, infatti, hanno rilevato strane configurazioni che non potevano essere naturali. Alberi in posizioni impossibili, colline dalla conformazione insolita. E allora, grazie ai primi scavi, ecco emergere altri reperti da non mancare: quelli di Ek Balam. Il nome nell’antica lingua Maya significa “Giaguaro nero”: il giaguaro in mattoni e roccia che fa da guardia all’altissima piramide (su cui ci si può ancora inerpicare, a differenza degli altri siti della penisola) suggerisce che era una città potente e una postazione guerriera, anche se in realtà si sa ancora molto poco perché la foresta che ha ricoperto tutto non è ancora stata completamente aperta e lo spettacolo è impressionante proprio perché le case e le piramidi emergono all’improvviso tra gli alberi. A mio avviso è uno dei luoghi più suggestivi e sicuramente merita una visita più di Chichén Itzá. A Ek Balam infatti si può camminare tra le strade Maya e salire la piramide fino all’ultimo piano, ma attenzione: chi soffre di vertigini deve farlo accompagnato; la salita è relativamente semplice, ma la discesa è impressionante perché la costruzione è realizzata in modo che dall’alto quasi non si veda il gradino su cui mettere il piede. L’Acropoli è stupefacente; oltre a essere la più imponente dell’area, ha conservato perfettamente intatti i suoi stucchi e le decorazioni, protetti dai tetti in paglia e poi dalla vegetazione. Non date credito alle storie, se la visitate: le guide vi racconteranno che la piramide rappresenta la bocca di un enorme mostro con le fauci aperte che per i Maya simboleggiava la porta verso altri mondi, non per nulla nell’area sono state rinvenute evidenti tracce di rituali magici e sacrifici umani. C’è di che non dormire la notte (almeno in zona!) e tornare a Cancún verso le discoteche dove si balla fino all’alba.

Altro must see della costa nello stato di Quintana Roo, che fa parte della penisola dello Yucatán, è Tulum, l’unica città Maya sul mare, una delle pochissime cinte da mura. Gli archeologi trovarono tutto lasciato come se l’indomani la vita avesse dovuto continuare. Semplicemente da un giorno all’altro sparirono e si trasferirono non si sa dove, alimentando miti e leggende, cento anni dopo la conquista spagnola. Lasciate le auto o i bus, dopo una lunga passeggiata si arriva al sito perfettamente conservato, per vedere e visitare case, depositi, mura e il Castillo vicino al Tempio del Dio Discendente proprio sul mare, a strapiombo, scenografia ideale per foto e selfie. Qui è facile l’incontro con le iguana. È il posto in Messico in cui sono più numerose. Sembrano in posa come star della natura, non si lasciano quasi avvicinare se non da pochissimi che sanno come trattarle. Diffidate di chi, come il vostro reporter, le conosce così bene da dar loro da mangiare direttamente in bocca. I denti sono dei rasoi e loro tendono a strappare il cibo con violenza dalle dita… e anche le dita! Sempre nella zona di Tulum (ma come anche a Cobá, o nell’interno dello Yucatán), per i sub vale la pena prenotare un’immersione in acqua dolce in uno dei cenotes. L’esperienza è unica. Nuotare sotto quindici metri di stalattiti immerse nell’acqua e arrivare a grotte irraggiungibili a piedi attraverso la giungla lascia un ricordo indelebile ed è possibile in pochissimi luoghi al mondo. E per chi non è sub l’ingresso alle grotte è libero. Bastano una maschera e un boccaglio per guardare a venti metri di distanza verso il buio interno, in acque limpide e cristalline.

L’area naturale tra Tulum e Akumal, inoltre, è zona faunistica protetta per la riproduzione delle tartarughe. Osservare la schiusa delle uova nel tardo pomeriggio e poi il viaggio di cinquanta metri verso il mare è come vedere un film che racconta un’epopea. Le vedi piccole e nere stirarsi fuori dalle uova, come volessero distendere le braccia al mattino dopo il sonno; le guardi nascondersi nella sabbia per sfuggire ai gabbiani che volteggiano sopra di loro; le segui fino a quando sei certo che arriveranno a buttarsi in acqua per poi venir respinte nuovamente sulla battigia dalle onde e allora via, a rituffarsi tra la schiuma e finalmente prendere il largo. Sono emozioni che nessuna storia di Instagram potrà mai raccontare davvero, anche se viene la voglia di filmarle.
Scendendo a sud, si va a Chetumal, dove si racconta sia nata la razza mestizos, i sangue misto discendenti dallo spagnolo Gonzalo Guerrero e la principessa Maya Zazil Há (più chiari, alti e dal collo slanciato), che si distinguono dai Maya originari per le caratteristiche somatiche differenti da quelle tipiche degli abitanti di questa regione, normalmente piccoli, scuri, senza collo e quasi completamente glabri.
Sulla costa dello Yucatán, chi ha poco tempo e vuole vedere in una manciata di giorni un po’ di “Messico per turisti” può affrontare i parchi di Xcaret o di Xel-Há, dove si può praticare snorkeling, fare il bagno con i delfini e visitare piccole rovine. Ma è veramente turismo di massa, valido solo per chi decide di passare una settimana in un resort all inclusive di Cancún o Playa del Carmen, due città che vivono di notte più che di giorno e hanno nel Coco Bongo di Cancún, discoteca famosissima. Qui, tra barra libre e spettacoli dal vivo degni del Cirque du Soleil (che tra hotel e foresta ha aperto un teatro solo per rappresentare Joyà, una delle ultime produzioni), si arriva facilmente al mattino quando ci si addormenta su spiagge bianchissime di hotel extralusso.

Cancún (letteralmente “nido di vipere”, perché sorge su un’area che una volta era una giungla di mangrovie inaccessibili) e Playa del Carmen sono i classici paradisi tropicali trasformati in città da turisti. Cancún si divide in due parti: una che volge verso l’interno e una a penisola sulla laguna esterna dove sorge la Zona Hotelera, con una scelta di quattro e cinque stelle lusso degna di un catalogo, su una spiaggia da sogno. Chi poi ha la fortuna e la possibilità di soggiornare in alberghi come il Le Blanc o il Paradisus, solo per citare due esempi, può decidere se avere la camera sulla laguna (vista tramonto) o sul mare (vista alba). Da Cancún partono le escursioni, i traghetti per Isla Mujeres (la nuova zona turistica con strutture moderne e natura ancora incontaminata) e soprattutto si vive la noche mexicana – che significa fiesta total! – nelle tantissime discoteche e nei locali, nei quali ci si diverte come non ci fosse un domani.
Playa del Carmen è l’equivalente di Cancún, più in piccolo. Tutto ruota intorno alla Quinta Avenida, dai locali notturni ai negozi di souvenir. Da Playa partono i traghetti per Cozumel, isola che sfoggia una barriera corallina incontaminata nonostante l’attracco delle navi da crociera.

Lo so, sono di parte. Ma il Messico è nel mio cuore. È una terra di contrasti; dal lusso degli hotel di Cancún e Los Cabos alle posadas senza neppure ventilatore sulla spiaggia o alle case interne degli altopiani. Ma è una terra da scoprire con l’animo aperto, con il coraggio e la curiosità dell’esploratore più che del turista. E allora ti capita di incontrare per caso un puma che sonnecchia a cinquanta metri dalla strada sterrata dell’entroterra; oppure di chiedere un’informazione e trovarti seduto a un tavolo a bere mezcal con un vecchio sdentato che ti racconta le leggende del serpente piumato da cui discende e poi ti offre un’amaca per dormire al pomeriggio perché la siesta è sacra e c’è sempre un buon motivo per essere stanchi. Il Messico è così. Va vissuto a ritmo lento, senza agitarsi, senza l’ansia tutta milanese della prestazione, dell’arrivare prima verso qualcosa da cui subito ripartire affannati. Ma dopo qualche giorno si deve ripartire davvero e allora ecco il controllo passaporti, dove gli agenti sorridono, ma meno allegri di quando arrivi. Perché per loro lasciarti andare via è perdere un amico sconosciuto, una persona venuta a vivere il loro paese rubandogliene un pezzo da chiudere nel cuore, con il bagaglio dei ricordi indelebili che non si dichiarano in frontiera.
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