probabilmente la salsa di soia, nel 1600, è arrivata fino in Inghilterra sui vascelli della Compagnia delle Indie, dando poi origine, attraverso un’infinita serie di slittamenti e sostituzioni al moderno ketchup”
Presente in modo ubiquo pressoché in tutto l’Oriente, dalla Cina al Giappone, dal sud-est asiatico alle Filippine, dalle Hawaii all’Indonesia (dove è chiamata ketjap, e se il suono vi dice qualcosa, avete ragione) la salsa di soia è un condimento liquido o semiliquido ottenuto da soia, grano e riso fermentati grazie all’azione di due funghi, l’Aspergillus oryzae o l’Aspergillus sojae. E questa è grosso modo la parte che hanno in comune tutte le salse di soia. Che tipo di fungo, quali cereali e in che proporzioni, quanta acqua viene usata in fase di macerazione e quanto a lungo dureranno la fermentazione e la maturazione del prodotto cambiano invece moltissimo da tradizione a tradizione e danno risultati anche molto differenti fra loro.
Salsa di soia da produzione industriale: Koikuchi e Tamari
Per restare in un campo ancora tutto sommato semplice, possiamo dire che la salsa di soia che conosciamo noi e che usiamo normalmente si divide in due categorie: la Koikuchi (tipica del Giappone, la cui marca più famosa è la Kikkoman, le cui linee di produzione per l’Europa si trovano in Olanda) e la Tamari, generalmente più densa e saporita, facile da trovare nei negozi di alimentari etnici. Entrambe di produzione industriale, hanno poco di interessante: macerate in enormi autoclavi di acciaio, utilizzano starter chimici che velocizzano i processi fermentativi, in genere non richiedono più di poche settimane prima di essere immesse sul mercato; hanno una shelf life di un paio di anni.
Salsa di soia da produzione tradizionale: infinite declinazioni
Se diamo uno sguardo alla produzione tradizionale il panorama invece cambia radicalmente. Le tipologie di salsa di soia sono numerosissime, i produttori artigianali migliaia (solo in Giappone sono più di milleduecento), i tempi di produzione possono richiedere anni (come per l’invecchiamento dei vini più pregiati), e i prodotti finiti non hanno nulla a che vedere con quelli che siamo abituati a consumare.
Cina
Cominciamo dalla Cina. Qui, un po’ come fossero le DOC per i vini italiani, le salse di soia vengono classificate in due principali categorie: quelle derivanti direttamente da processi fermentativi e quelle che invece sono frutto di successivi blend (come avviene per i whisky scozzesi).
Processi fermentativi
Alla prima categoria appartengono: la Shēng chou, una salsa leggera ottenuta dalla fermentazione di soia e grano tostato; la Tòu chōu, una sorta di prima spremitura della Shēng chou, più costosa e raffinata; la Shuāng huáng, salsa che subisce un doppio processo di fermentazione teso a renderne più complessi gli aromi; la Yìn yóu, più scura delle precedenti e fatta esclusivamente a partire dalla soia fermentata a lungo.
Blend
A queste si aggiungono poi i blend: la Lăo chōu, ottenuta a partire dalla Shēng chou, addizionata di caramello e sottoposta a un prolungato processo di affinamento; la Cǎogū lǎochōu è invece ottenuta dalla Lăo chōu alla quale viene aggiunto una sorta di vino, risultato della fermentazione della Volvarella violacea (funghi simili ai chiodini che nei negozi cinesi si trovano descritti come i funghi di paglia); o ancora la Jiàng yóu gāo, una salsa di soia sottoposta a un processo di riduzione tramite aggiunta di zucchero e successiva bollitura.
Giappone
In Giappone, invece, le principali tipologie di salsa di soia definite e tutelate per legge sono cinque. La Koikuchi (se vi ricordate è quella che noi conosciamo grazie alla Kikkoman) è sicuramente la più diffusa. Prodotta con parti uguali di soia e grano, rappresenta l’80% del mercato giapponese ed è tipica della zona di Tokyo; la Usukuchi è più chiara, nella ricetta vede spesso l’impiego di riso fermentato e glutine di frumento ed è tipica del Giappone occidentale; la Tamari, con una percentuale di soia superiore rispetto al grano, è più densa e saporita ed è originaria del Giappone centrale; la Shiro, quasi trasparente, è molto amata dagli chef anche occidentali e viene dalla prefettura di Aichi; la Nama è invece una salsa di soia non pastorizzata, con lunghi affinamenti in legno, forse la tipologia più vicina alla ricetta originale.
Corea, Borneo e Indonesia
Mancherebbe poi uno sguardo alla tradizione coreana, anche questa ricchissima, con le sue tredici tipologie codificate e i loro invecchiamenti che si spingono persino oltre i cinque anni; come pure al Borneo e all’Indonesia, dal cui arcipelago probabilmente la salsa di soia, nel 1600, è arrivata fino in Inghilterra sui vascelli della Compagnia delle Indie, dando poi origine, attraverso un’infinita serie di slittamenti e sostituzioni al moderno ketchup. Ma questa, forse, è un’altra storia.
di Fabio Zaccaria, tratto da FVM 59 – autunno 2022
Okara, da rifiuto a risorsa per diete e cucina nutraceutica
Sembra impossibile ma da ogni chilo di soia utilizzata per produrre tofu e latte si ottengono approssimativamente un chilo e cento grammi di scarti, chiamati okara. A prima vista verrebbe da dire che i conti non tornano, ma il punto è che per produrre tofu e latte di soia, i semi devono prima essere macerati in acqua e il processo finale di “strizzatura” non può andare oltre certi limiti, così che quello che rimane, una pappa composta per la maggior parte di fibra insolubile (40%), grassi (10%) e proteine (28%), finisce per pesare più della materia prima. Di come utilizzare una tale quantità di prodotti di risulta (qualcosa come quindici milioni di tonnellate ogni anno) si è occupata dapprima la cucina tradizionale, ma i volumi sono tali che il consumo umano non era sufficiente a smaltirlo. Così l’okara è diventato parte integrante dei mangimi animali e in quasi tutto il mondo, grazie al suo alto contenuto di azoto, è stato impiegato come concime per l’agricoltura.
Questo almeno fino a pochi mesi fa, quando le cose hanno cominciato a muoversi in una direzione diversa, con grande fermento, e contemporaneamente un po’ ovunque. Nel febbraio 2022, un team di ricercatori della Nanyang Technological University di Singapore ha pubblicato una ricerca che sottolinea le virtù nutraceutiche dell’okara nel controllo del peso e dei livelli di colesterolo di pazienti affetti da obesità.
Una start up di San Francisco, la Renewal Mill, ha avviato la produzione di farine speciali ad alto contenuto di proteine e fibre; la Soynergy di Singapore utilizza invece l’okara per produrre un latte dalle spiccate caratteristiche probiotiche; mentre a Zurigo, Luya impiega l’okara come ingrediente di base per realizzare hamburger, nuggets e bocconcini che faranno il proprio ingresso nella grande distribuzione.
Natto, puzzolente, viscido e appiccicoso: superfood o incubo gastronomico?
La prima impressione non gioca proprio a suo favore: caratterizzato da un odore pungente, una consistenza tendente al viscido e appiccicoso al tatto, il natto è un componente della dieta tradizionale giapponese. Derivato dalla soia fermentata non ha fino a oggi avuto un gran successo in Occidente, nonostante le sue importanti caratteristiche nutraceutiche. Il natto è infatti ricco di acido poliglutammico, rivelatosi fondamentale nell’abbassare i livelli di glucosio nel sangue e nel controllare la produzione di insulina.
Da millenni ingrediente fondamentale della colazione tipica nipponica, insieme al riso e al pesce in salamoia, deve il suo odore e la sua consistenza viscida e filamentosa all’azione del Bacillus subtilis, un batterio presente naturalmente nell’intestino di uomini e ruminanti e utilizzato fin dai primi del Novecento come integratore nella cura di problemi digestivi e urinari.
La scoperta che potrebbe decretarne la fortuna è però recente. Nel 2022, il team di ricercatori dell’Organizzazione nazionale giapponese per l’agricoltura e la ricerca alimentare, guidato da Masuko Kobori, ha associato le alte concentrazioni di γ-PGA al metabolismo degli zuccheri. Da quanto emerge dalla ricerca pubblicata sulla rivista Bioscience of microbiota, food and health gli effetti positivi del consumo di natto sono evidenti e incontrovertibili.
Per chi, fra i nostri lettori, volesse cimentarsi nella preparazione casalinga del natto, le ricette in rete non mancano. Servono semi di soia, il Bacillus subtilis (che si trova facilmente in Internet) e una yogurtiera o un essiccatore, o comunque un elettrodomestico con cui si possa tener d’occhio la temperatura (anche se, così come nella preparazione dello yogurt, averli è utile ma non indispensabile). Per consumare il natto, poi, il suggerimento è di accompagnarlo con un po’ di salsa di soia, erba cipollina e qualche germoglio fresco.
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