di Redazione
Nella nostra cultura fin dall’antica Roma i legumi hanno ricoperto un ruolo basilare nell’alimentazione umana. Gli antichi Romani pasteggiavano molto spesso con zuppe di legumi tra cui fave, lenticchie e lupini.”
I legumi venivano definiti fino a qualche tempo fa “la carne dei poveri”, definizione che suggerisce come la gerarchia degli alimenti sia stata fortemente plasmata sulla produzione carnea. Recentemente i legumi stanno riacquistando popolarità, grazie alle loro proprietà nutrizionali eccellenti e all’emergere dello stile di vita vegan. Proteine, fibre, ferro… sono solo alcune delle loro proprietà.
Negli anni però la produzione di legumi, come di tanti vegetali, si è molto razionalizzata e le varietà vendute e consumate sono pochissime in realtà. Quindi ci siamo abituati a pensare a piselli, lenticchie e ceci come nomi che definiscono un unico prodotto, in realtà le varietà sono tante: possiamo dire, senza esagerare, che ogni zona d’Italia ha il suo legume tipico, anche più d’uno.
Tra questi tanti sono i legumi antichi che si coltivavano un tempo e che non esistono su grande scala, ma i cui semi sono custoditi da famiglie e piccole aziende. L’agricoltura biologica sta favorendo il recupero delle varietà in disuso, grazie anche a una sensibilità nuova nei confronti della biodiversità.
Proviamo a nominarne alcuni:
Il nome cicerchia si legge e sente molto più di qualche anno fa. Si tratta di un legume già in uso ai Romani, originario del Medio Oriente. La pianta è simile a quella del cece, molto robusta e resistente alla siccità e ai parassiti. La cicerchia è simile a una piccola fava, il suo sapore è forte e si utilizza in zuppe e in primi. Non si deve eccedere nel suo consumo perché a grandi quantità (mangiata tutti i giorni) può esser tossica.
La roveja, chiamata da alcuni pisello selvatico che la considerano l’antenato del pisello comune. In merito però non c’è una classificazione certa. È una pianta rampicante e forte con bellissimi fiori viola. Il seme, la roveja, passa dal colore verde scuro, al marrone, al grigio. Probabilmente originaria del Medio Oriente, cresce spontaneamente lungo le scarpate e i prati di tutta Europa. Attualmente è poco diffusa, ma in passato veniva coltivata lungo tutta la dorsale appenninica umbro-marchigiana, in particolare tra i monti Sibillini, data la sua resistenza alle basse temperature. Si utilizza in zuppe e primi.
Esistono poi tanti altri, come il fagiolo zolfino, il fagiolo coco e il toscanello, produzioni tipiche della Toscana, così come il cece fiorentino, il cece nero e il cece piccino, tutte varietà di cece coltivate in Toscana. Questi fagioli vengono consumati come contorno; in uno stile di vita vegan i legumi sono un secondo a tutti gli effetti (sorvoliamo sull’abbinamento di proteine animali e vegetali in uno stesso pasto). I ceci invece ben si prestano a passati e creme. Non dimenticando le lenticchie, di cui esistono tantissime varietà e i lupini. Questi ultimi, coltivati soprattutto nel Sud Italia, stanno ritornando sulle tavole sotto forma di burger e cotolette, ma anche come ingredienti in cibi per celiaci o intolleranti al lattosio, sotto forma di farina.
Chi coltiva legumi antichi?
Graziella Marchetti è una signora di Jesi (An) che coltiva un seme tramandatoci dai suoi genitori: “si tratta di una specie di fagiolo dall’occhio, non conosco nemmeno il nome preciso di questa varietà. Il seme mi è stato tramandato dai miei genitori che vivevano di agricoltura. Sto parlando di persone nate nel 1916… all’inizio del secolo scorso! So che questo seme viene da ancor prima, ma non so bene da chi sia nata la coltivazione. Ogni anno, da 20 anni, semino a luglio e raccolgo a fine ottobre – inizi di novembre. Il fagiolo che produco è piccolo, bianco con una macchiolina marrone. La produzione è poca: ne conservo un po’ seccati in un vaso di vetro per la successiva semina, del resto ne faccio sacchetti e li conservo in freezer. Qualcuno lo mangiamo anche così, semplicemente lessato, hanno buccia fine e sono molto digeribili. Coltivarli è un impegno ma che porto avanti con molto piacere, sperando che non venga persa questa tradizione.”
E se vogliamo provare a coltivare qualche legume anche noi?
Prima di tutto occorre avere un po’ di terreno libero, la resa di questi legumi antichi è molto bassa, quindi non aspettiamoci grandi raccolti, ma la soddisfazione di qualche sacchettino di legumi freschi da conservare in freezer per l’inverno ce l’avremo. In secondo luogo dobbiamo rispettare la tipicità dei semi, cercare quindi il legume tipico del nostro territorio o quello che meglio si adatta al terreno e alle condizioni climatiche della nostra zona. Per recuperare dei semi possiamo fare qualche ricerca online e cercare gruppi di scambio semi (ne esistono diversi su Facebook e su blog) che spesso organizzano giornate dedicate, oppure rivolgerci a qualche agricoltore di lunga data che potrebbe aver custodito i semi. Questo perché i semi che troviamo in commercio sono perlopiù F1, cioè semi di piante ibride che difficilmente produrranno semi germinabili. Inoltre le piante nate da semi F1 sono molto più sensibili ad attacchi di parassiti e malattie in quanto la loro struttura genetica è selezionata dall’uomo.
Coltivare in ogni caso è un lavoro di fatica, ma coltivare legumi antichi lo è ancor di più: sono piante molto selvatiche, spesso rampicanti. Bisogna poi anche imparare qualche nozione semplice sulla gestione delle colture per non impoverire il terreno, cioè far rotare correttamente le nostre colture, anche in un piccolo orto.
Una ricetta antica
La Crapiata è un antichissimo piatto della tradizione contadina materana, una ricca zuppa di ceci bianchi, cicerchie, lenticchie, piselli, fave intere, fagioli borlotti, fagioli cannellini e grano decorticato. Si mette il tutto a bagno per almeno 12 ore prima di cucinarlo. Si risciacquare e si mette a cuocere in un tegame, meglio se di terracotta, aggiungendo erbe aromatiche a proprio piacimento. La cottura è di circa 40 minuti, salare solo a fine cottura. A questo punto si aggiunge pomodoro, sedano, olio extravergine di oliva e, secondo la ricetta tradizionale, una patata e si finisce di cuocere. L’aneddoto di questa ricetta è che si racconta che quando tutta la popolazione materana abitava nei Rioni Sassi, nel periodo estivo per festeggiare il raccolto il vicinato si riuniva portando con sé ognuno un legume diverso, questi venivano cotti in un unico calderone dando vita alla cosiddetta Crapiata.