Myanmar, un paese rimasto chiuso a chiave come un forziere prezioso per anni, e ora aperto per incantare i moderni cercatori di tesori.“
di Francesca Bresciani
Foto di Tommaso Cazzaniga
Immaginate di essere un cercatore di tesori. Dopo anni e anni di estenuanti ricerche, misteri da risolvere e false piste, finalmente lo trovate: sepolto sotto strati e strati di storia, è lui, il vostro forziere. Lo aprite, e la luce dell’oro vi abbaglia. Siete ricchi! Ecco, questa è esattamente la sensazione che proverete in Myanmar, un paese rimasto chiuso a chiave come un forziere prezioso per anni, e ora aperto per incantare i moderni cercatori di tesori.
Mandalay
La nostra esplorazione comincia da Mandalay, la capitale culturale del paese. Lasciati gli zaini in hotel, ci dirigiamo verso il cuore della città: l’antica cittadella. Oltre sei chilometri di mura merlate, circondate da un fossato di acqua blu come il cielo sopra le nostre teste, custodiscono il Palazzo Reale di Mandalay. I bordi dei tetti rossi ricamati d’oro risplendono sotto il sole del tramonto, facendoci dimenticare il torrido, trafficato e polveroso caos che riempie le vie della città. I tristi palazzi di cemento, le buche nei marciapiedi che sembrano condurre direttamente all’inferno, il traffico che permette esclusivamente ad atleti olimpionici l’attraversamento della strada sono solo la maschera dietro alla quale si nascondono piccole gemme da scoprire: le guglie rosa della St Michael Catholic Church, lo stupa dorato della Chantaya Paya, le lastre di marmo della Kuthodaw Paya e della Sandamuni Paya, su cui sono scolpite le scritture buddiste e che vengono considerate il libro più grande del mondo. Ancora, i piccoli laboratori di orafi intenti a realizzare le minuscole foglie d’oro con cui i fedeli abbelliscono devotamente le statue di Buddha. Al tramonto, la cima della Mandalay Hill è il luogo perfetto dove contemplare il brulichio di vite che si ingarbugliano l’una all’altra, in un tempo e in uno spazio che seguono regole proprie.
Il giorno dopo scappiamo dal concerto di clacson della città e prenotiamo un tour alla scoperta della vera attrazione dell’area di Mandalay: le antiche capitali birmane che sorgono nei dintorni. Non amiamo molto i tour organizzati, ma in Birmania la scelta è spesso sia la migliore che l’unica possibile. Ricordate che in pochissimi parlano inglese, l’alfabeto, seppur affascinante, è incomprensibile e non si trovano indicazioni stradali.
Mahar Gandar Yone Monastery
Il tour comincia con una breve visita a un laboratorio di artigianato locale. Statue intagliate nel legno sembrano muovere le mani al ritmo di danze antiche, dando il via allo scatenarsi delle marionette, vestite di lustrini e perline scintillanti.
Facciamo una sosta al Mahar Gandar Yone Monastery, dove per brevi istanti sbirciamo nella vita dei tremila monaci che hanno scelto la via dell’Illuminazione. Verso le undici il monastero si riempie di turisti. I monaci in fila raccolgono donazioni prima del secondo pasto della giornata (il primo viene consumato alle quattro del mattino, e alla sera possono assumere solo liquidi), mentre l’aria risuona di “click”. Ci sentiamo un po’ stupidi, guardando bambini di cinque anni intenti a seguire gli insegnamenti del Buddha che diventano lo show dei turisti ammassati. Ce ne stiamo in disparte, a guardare i cani che gironzolano tra le vesti rosse di vecchi monaci.
Proseguiamo verso Sagaing. Nella U Pon Nya Shin Paya, sulla sommità della Sagaing Hill, camminiamo a piedi nudi su pavimenti colorati seguendo percorsi da una statua di Buddha a un’altra. Quella circondata da led da discoteca ci ruba un sorriso. Giunti sulla terrazza, restiamo incantati dal panorama degli stupa bianchi e oro sparpagliati sulle colline verde brillante. Sembrano stelle su un cielo verde. La giornata prosegue con un laboratorio di seta, uno di argento, un pranzo a base di riso e verdura e la visita alla bellissima Ava (chiamata anche Inwa), ben quattro volte capitale del Regno di Birmania.
Dopo aver passato mezz’ora a convincere la guida che il giro in calesse proprio non fa per noi, raggiungiamo (con la macchina) delle rovine dove le statue di Buddha respingono con stoica serenità l’attacco di radici e rami desiderosi di riconquistare il proprio dominio. Camminiamo nella frescura del Bagaya Kyaung Monastery, tenuto in piedi da 267 tronchi di teak, seguendo con lo sguardo i pavoni scolpiti sulle travi di legno e sorridendo quando uno dei monaci novizi, più intento a punzecchiare un compagno con una matita che a ripetere la lezione, viene redarguito. Nel Maha Aungmye Bonzan, conosciuto anche come il monastero di mattoni, una coppia di sposi posa per il servizio fotografico del matrimonio, mentre dei pipistrelli bianchi riposano indisturbati nella cripta.
L’ultima tappa di questa giornata intensa è lo U-Bein Bridge di Amarapura. In molti si riuniscono qui al tramonto per vedere il sole affondare nel Lago Taungthaman dal ponte di teak più lungo del mondo. Dei contadini attraversano il lago con i loro buoi candidi come neve, piccole donne cercano di vendere acqua e dei monaci scattano dei selfie dal ponte, alla luce di un cielo arancione come le loro tuniche.
Bagan
Il giorno successivo prendiamo un minivan e attraversiamo un villaggio dopo l’altro, fermandoci decine di volte per consegnare/prendere/caricare cose, fino a Bagan, senza dubbio uno dei più straordinari posti al mondo.
Soggiorniamo a New Bagan, vicina ai templi ma meno costosa di Old Bagan. Noleggiamo un motorino elettrico giallo fosforescente (non si sa mai, dovessimo perderci…) e ci avventuriamo, mappa alla mano, nella piana dove più di tremila templi aspettano solo di essere esplorati da novelli Indiana Jones.
Il primo giorno decidiamo di seguire l’itinerario consigliato dalla guida e iniziamo con l’Ananda Temple, il tempio più grande, più venerato e meglio conservato del complesso. Ci togliamo le scarpe, cosa a cui ci abituiamo in fretta, visto che nei luoghi sacri, dove passiamo la maggior parte del tempo, si cammina scalzi. Gigantesche porte di teak incutono soggezione, che cresce mentre i piedi nudi avanzano su pavimenti umidi nella penombra, verso la statua immensa di un Buddha intento a tenere il suo primo sermone. Viene voglia di sedersi e ascoltare la saggezza che trapela dal silenzio della statua dorata, che per un istante prende vita.
“Sfrecciamo” a 25 km/h fermandoci a visitare il Thatbyinnyu Temple, il tempio più alto di Bagan, il maestoso Htilominlo Temple, la Bu Paya, uno stupa d’oro abbagliante che si affaccia sul corso pacato del fiume Irrawaddy. E ancora la Mahabodhi Pagoda con i suoi Buddha assisi e il Dhammayangyi Pahto, i cui corridoi murati celano misteri inquietanti. Al tramonto, la Shwe San Daw Pagoda richiama tutti i visitatori, che si appollaiano sulle sue cinque terrazze culminanti in un bianco stupa circolare. Scaliamo i gradini ben prima del tramonto, per poter godere della vista dell’intera valle con solo il canto del vento nelle orecchie. Quando il tempio si trasforma in una piccionaia di turisti, facciamo ritorno all’hotel, dove assistiamo a uno spettacolo di marionette.
Thanaka
Il giorno seguente fingiamo di essere veri avventurieri, e imbocchiamo una via poco battuta, portando il nostro motorino elettrico sulla sabbia come se fosse una moto da enduro. In realtà l’intera area è mappata, sicura e percorsa dai turisti, ma quando arriviamo in un tempio isolato, senza cartelli, e ci infiliamo dentro la sua pancia buia e umida, dal cui soffitto penzolano pipistrelli enormi, ecco… ci sembra di essere in un film. Il venditore di dipinti su sabbia che arriva su un motorino scassato ci ricorda che, in fin dei conti, siamo pur sempre dei turisti.
Nel museo del thanaka scopriamo finalmente l’origine della crema che tutte le donne (e anche molto uomini e bambini) si spalmano sul viso e sulle braccia: si tratta di una pianta, il thanaka appunto, la cui corteccia viene macinata su una roccia con qualche goccia d’acqua e poi spalmata come cosmetico astringente, tonificante, crema solare e make up di bellezza.
Nella Bagan House Lacquerware, invece, ammiriamo gli artigiani produrre lacche perfette ed esporre con orgoglio mobili e vasellame che farebbero bella figura in un palazzo reale. A Bagan resteremmo a lungo, fino a toccare le pareti di ogni tempio, ognuno diverso dall’altro, affascinante, misterioso, mai noioso.
Lago Inle (Shan)
Proseguiamo verso il Lago Inle. Veniamo messi alla prova per un intero giorno di viaggio, sballottolati su un minivan scassato, lungo strade a picco su foreste tropicali, sotto un cielo minaccioso, in compagnia di due genitori tedeschi visibilmente preoccupati per i loro bambini di cinque anni. La verità è che l’autista non parla inglese, sulla carta dovremmo metterci poche ore ma alle sette di sera siamo ancora in viaggio, al buio, senza capire dove ci troviamo. All’inizio la cosa ci scombussola un po’: essere caricati su un autobus che ha fatto l’ultimo tagliando forse venti anni prima, senza indicazioni, senza un programma, senza che nessuno ti dica qualcosa in una lingua che tu possa sentire come familiare, solo al suono di “Lake Inle”. Poi, capiamo che qui è normale così. Lasciamo che ci mettano fisicamente sul nostro sedile e aspettiamo che ci dicano loro quando scendere, cosa fare, anche a gesti se occorre. Ci fidiamo. E funziona! Arriviamo a destinazione sani e salvi, come da programma.
Siamo a Nyaungshwe, un piccolo paesino che poco ha da offrire se non hotel e guesthouse dove fare base per le escursioni sul lago. Un buon sonno ci ritempra, e siamo pronti per saltare su una barca a motore, seppellirci sotto la coperta di peluche arancione fluo e strabiliare quando il canale si getta nel lago, un’immensa tavola argentea, su cui le nuvole si riflettono dando l’illusione che il cielo continui sotto la barca. Vediamo all’opera i pescatori, famosi per il modo in cui remano: in piedi a poppa, in equilibrio su un piede, vogano con l’altra gamba, con la quale “abbracciano” il remo tenendolo tra l’incavo del ginocchio e la caviglia. Sembra una danza.
Sull’azzurro del lago spiccano gli stupa luccicanti d’oro e gli orti galleggianti, veri e propri orti coltivati su tappeti di alghe che crescono su canne di bambù piantate sui fondali. Visitiamo i villaggi sulle palafitte, ci fermiamo in un laboratorio dove ottengono un tessuto dal loto, con cui fanno sciarpe costosissime, ci mostrano come vengono costruite le barche del lago e come lavorano l’argento. Nel villaggio di Inthein centinaia di stupa in rovina si stagliano come fantasmi volteggianti nella vegetazione tropicale.
A Nga Hpe Kyaung, il monastero dei gatti che saltano, i gatti sonnecchiano accanto ai monaci in attesa che questi li facciano saltare nei cerchi.
Il lago non è l’unica attrazione della regione. Splendidi sentieri possono essere scoperti facendo trekking o noleggiando biciclette. Noi, però, scegliamo di andare a Pindaya. Un paio d’ore di taxi attraverso campi coltivati, distese di fiori gialli, prati verdissimi e bananeti ci conducono alla grotta naturale della Shwe Oo Min Pagoda, un’immensa caverna calcarea dove sono custodite più di ottomila statue dorate di Buddha. Un vero e proprio dedalo di gallerie tempestato di Buddha d’oro ci affascina, disorienta, ammalia. Migliaia di volti enigmatici fissano i visitatori che si perdono nei meandri di un posto incantato.
Un altro giorno trascorre sul Lago Inle, dove lasciamo che il ritmo lento della vita sulle acque blu del lago, disturbato solo da qualche lieve increspatura, ci culli dolcemente. La sera, prendiamo l’autobus notturno con destinazione Bago: il viaggio più allucinante della nostra vita, a suon di buche e karaoke, l’unica, vera ossessione dei birmani. Vediamo karaoke ovunque, a ogni ora del giorno e della notte, e – ahimè – il canto non è la dote principale di questo popolo gentile. Non ci lamentiamo, perché la mancanza di comfort è il piccolo prezzo da pagare per essere in un paese dove il turismo non ha ancora snaturato e distorto la realtà della gente, e dove è possibile ammirare un tempio in pacifico silenzio.
Giungiamo a Bago alle quattro del mattino, storditi e stravolti. Un uomo allegro ci carica sul suo tuk tuk per portarci al nostro hotel. Quando vedo una rana gigante in equilibrio su un ombrello appeso al tuk tuk, mi chiedo se, forse, non sono troppo stanca. No, la rana è vera, e, dopotutto, non è nemmeno la cosa più strana che vedremo.
Il giorno dopo, infatti, ci aspetta un pitone gigante, venerato come reincarnazione di un monaco. Si trova nello Snake Monastery, è lungo cinque metri ed è amorevolmente nutrito e accudito dalla gente del posto. Un tuk tuk ci porta in giro per la città, tra pagode, monasteri, facendo la gimkana tra ingorghi stradali e cumuli di spazzatura. Bago non è il paese delle favole, e consiglio di starci giusto il tempo di una visita ai principali templi.
Bagan
Il giorno successivo prendiamo un minivan e attraversiamo un villaggio dopo l’altro, fermandoci decine di volte per consegnare/prendere/caricare cose, fino a Bagan, senza dubbio uno dei più straordinari posti al mondo.
Soggiorniamo a New Bagan, vicina ai templi ma meno costosa di Old Bagan. Noleggiamo un motorino elettrico giallo fosforescente (non si sa mai, dovessimo perderci…) e ci avventuriamo, mappa alla mano, nella piana dove più di tremila templi aspettano solo di essere esplorati da novelli Indiana Jones.
Il primo giorno decidiamo di seguire l’itinerario consigliato dalla guida e iniziamo con l’Ananda Temple, il tempio più grande, più venerato e meglio conservato del complesso. Ci togliamo le scarpe, cosa a cui ci abituiamo in fretta, visto che nei luoghi sacri, dove passiamo la maggior parte del tempo, si cammina scalzi. Gigantesche porte di teak incutono soggezione, che cresce mentre i piedi nudi avanzano su pavimenti umidi nella penombra, verso la statua immensa di un Buddha intento a tenere il suo primo sermone. Viene voglia di sedersi e ascoltare la saggezza che trapela dal silenzio della statua dorata, che per un istante prende vita.
“Sfrecciamo” a 25 km/h fermandoci a visitare il Thatbyinnyu Temple, il tempio più alto di Bagan, il maestoso Htilominlo Temple, la Bu Paya, uno stupa d’oro abbagliante che si affaccia sul corso pacato del fiume Irrawaddy. E ancora la Mahabodhi Pagoda con i suoi Buddha assisi e il Dhammayangyi Pahto, i cui corridoi murati celano misteri inquietanti. Al tramonto, la Shwe San Daw Pagoda richiama tutti i visitatori, che si appollaiano sulle sue cinque terrazze culminanti in un bianco stupa circolare. Scaliamo i gradini ben prima del tramonto, per poter godere della vista dell’intera valle con solo il canto del vento nelle orecchie. Quando il tempio si trasforma in una piccionaia di turisti, facciamo ritorno all’hotel, dove assistiamo a uno spettacolo di marionette.
Thanaka
Il giorno seguente fingiamo di essere veri avventurieri, e imbocchiamo una via poco battuta, portando il nostro motorino elettrico sulla sabbia come se fosse una moto da enduro. In realtà l’intera area è mappata, sicura e percorsa dai turisti, ma quando arriviamo in un tempio isolato, senza cartelli, e ci infiliamo dentro la sua pancia buia e umida, dal cui soffitto penzolano pipistrelli enormi, ecco… ci sembra di essere in un film. Il venditore di dipinti su sabbia che arriva su un motorino scassato ci ricorda che, in fin dei conti, siamo pur sempre dei turisti.
Nel museo del thanaka scopriamo finalmente l’origine della crema che tutte le donne (e anche molto uomini e bambini) si spalmano sul viso e sulle braccia: si tratta di una pianta, il thanaka appunto, la cui corteccia viene macinata su una roccia con qualche goccia d’acqua e poi spalmata come cosmetico astringente, tonificante, crema solare e make up di bellezza.
Nella Bagan House Lacquerware, invece, ammiriamo gli artigiani produrre lacche perfette ed esporre con orgoglio mobili e vasellame che farebbero bella figura in un palazzo reale. A Bagan resteremmo a lungo, fino a toccare le pareti di ogni tempio, ognuno diverso dall’altro, affascinante, misterioso, mai noioso.
Lago Inle (Shan)
Proseguiamo verso il Lago Inle. Veniamo messi alla prova per un intero giorno di viaggio, sballottolati su un minivan scassato, lungo strade a picco su foreste tropicali, sotto un cielo minaccioso, in compagnia di due genitori tedeschi visibilmente preoccupati per i loro bambini di cinque anni. La verità è che l’autista non parla inglese, sulla carta dovremmo metterci poche ore ma alle sette di sera siamo ancora in viaggio, al buio, senza capire dove ci troviamo. All’inizio la cosa ci scombussola un po’: essere caricati su un autobus che ha fatto l’ultimo tagliando forse venti anni prima, senza indicazioni, senza un programma, senza che nessuno ti dica qualcosa in una lingua che tu possa sentire come familiare, solo al suono di “Lake Inle”. Poi, capiamo che qui è normale così. Lasciamo che ci mettano fisicamente sul nostro sedile e aspettiamo che ci dicano loro quando scendere, cosa fare, anche a gesti se occorre. Ci fidiamo. E funziona! Arriviamo a destinazione sani e salvi, come da programma.
Siamo a Nyaungshwe, un piccolo paesino che poco ha da offrire se non hotel e guesthouse dove fare base per le escursioni sul lago. Un buon sonno ci ritempra, e siamo pronti per saltare su una barca a motore, seppellirci sotto la coperta di peluche arancione fluo e strabiliare quando il canale si getta nel lago, un’immensa tavola argentea, su cui le nuvole si riflettono dando l’illusione che il cielo continui sotto la barca. Vediamo all’opera i pescatori, famosi per il modo in cui remano: in piedi a poppa, in equilibrio su un piede, vogano con l’altra gamba, con la quale “abbracciano” il remo tenendolo tra l’incavo del ginocchio e la caviglia. Sembra una danza.
Sull’azzurro del lago spiccano gli stupa luccicanti d’oro e gli orti galleggianti, veri e propri orti coltivati su tappeti di alghe che crescono su canne di bambù piantate sui fondali. Visitiamo i villaggi sulle palafitte, ci fermiamo in un laboratorio dove ottengono un tessuto dal loto, con cui fanno sciarpe costosissime, ci mostrano come vengono costruite le barche del lago e come lavorano l’argento. Nel villaggio di Inthein centinaia di stupa in rovina si stagliano come fantasmi volteggianti nella vegetazione tropicale.
A Nga Hpe Kyaung, il monastero dei gatti che saltano, i gatti sonnecchiano accanto ai monaci in attesa che questi li facciano saltare nei cerchi.
Il lago non è l’unica attrazione della regione. Splendidi sentieri possono essere scoperti facendo trekking o noleggiando biciclette. Noi, però, scegliamo di andare a Pindaya. Un paio d’ore di taxi attraverso campi coltivati, distese di fiori gialli, prati verdissimi e bananeti ci conducono alla grotta naturale della Shwe Oo Min Pagoda, un’immensa caverna calcarea dove sono custodite più di ottomila statue dorate di Buddha. Un vero e proprio dedalo di gallerie tempestato di Buddha d’oro ci affascina, disorienta, ammalia. Migliaia di volti enigmatici fissano i visitatori che si perdono nei meandri di un posto incantato.
Un altro giorno trascorre sul Lago Inle, dove lasciamo che il ritmo lento della vita sulle acque blu del lago, disturbato solo da qualche lieve increspatura, ci culli dolcemente. La sera, prendiamo l’autobus notturno con destinazione Bago: il viaggio più allucinante della nostra vita, a suon di buche e karaoke, l’unica, vera ossessione dei birmani. Vediamo karaoke ovunque, a ogni ora del giorno e della notte, e – ahimè – il canto non è la dote principale di questo popolo gentile. Non ci lamentiamo, perché la mancanza di comfort è il piccolo prezzo da pagare per essere in un paese dove il turismo non ha ancora snaturato e distorto la realtà della gente, e dove è possibile ammirare un tempio in pacifico silenzio.
Giungiamo a Bago alle quattro del mattino, storditi e stravolti. Un uomo allegro ci carica sul suo tuk tuk per portarci al nostro hotel. Quando vedo una rana gigante in equilibrio su un ombrello appeso al tuk tuk, mi chiedo se, forse, non sono troppo stanca. No, la rana è vera, e, dopotutto, non è nemmeno la cosa più strana che vedremo.
Il giorno dopo, infatti, ci aspetta un pitone gigante, venerato come reincarnazione di un monaco. Si trova nello Snake Monastery, è lungo cinque metri ed è amorevolmente nutrito e accudito dalla gente del posto. Un tuk tuk ci porta in giro per la città, tra pagode, monasteri, facendo la gimkana tra ingorghi stradali e cumuli di spazzatura. Bago non è il paese delle favole, e consiglio di starci giusto il tempo di una visita ai principali templi.
Dopo serpenti giganti e autisti di tuk tuk convinti di guidare Ferrari, saliamo su un altro autobus senza aria condizionata e facciamo una lunga sauna fino al Monte Kyaiktiyo.
Nel piccolo paese di Kinpun, alle pendici del monte, grandi camion caricano sui loro cassoni tanta gente quanta riescono a comprimerne sulle panche di legno imbottite. Undici chilometri di tornanti simili a quelli delle montagne russe (e infatti i più giovani pellegrini gridano come al Luna Park) sono la via obbligata per accedere al più sacro dei santuari birmani: la Golden Rock, un immenso masso ricoperto d’oro e sormontato da uno stupa, in bilico in cima alla montagna. L’apparenza inganna, e un sasso non è solo un sasso, almeno in questo caso. Il masso spicca sul panorama mozzafiato della montagna, l’oro buca il blu del cielo terso, un’aura magica circonda le pareti che i monaci e i pellegrini toccano pregando. Nella roccia sembra scorrere un’energia invisibile ma potente, e anche i più scettici restano in contemplazione di fronte a un enigma della fede e della natura.
La Birmania è il paese dell’oro. L’oro di cui sono fatte le persone, che si prendono cura dei visitatori come di bambini sperduti, aiutandoti a salire sull’autobus esatto, indicando il ristorante più vicino, chiedendo se hai bisogno di qualcosa quando ti vedono fermo in mezzo alla strada con un gigantesco punto di domanda sopra la testa. E l’oro delle centinaia di pagode lucenti che ne fanno un tesoro unico al mondo.
Yangon
Ma la pagoda più straordinaria è quella di Yangon. Quando arriviamo di fronte alla Shwedagon Paya, una vera e propria piramide di oro sfavillante, vogliamo credere che sia questo il simbolo del nuovo Myanmar, che faticosamente ma con coraggio procede verso un futuro luminoso lasciandosi alle spalle una lunga storia di dolore.
Quattro entrate principali fiancheggiate da venditori di offerte e statue di Buddha conducono alla grande terrazza dai mirabolanti colori, disseminata di padiglioni e stanze per la preghiera. Camminiamo nel complesso e ci sdraiamo all’ombra di un tempio, guardando la gente che prega, mangia, chatta con lo smartphone e riposa. È un luogo dove si potrebbe trascorrere un giorno intero senza mai smettere di stupirsi.
Yangon esplode di vita, persone, mercati, colori, rumori. I marciapiedi sono invasi da bancarelle e ristorantini di strada e camminare diviene impossibile dopo le prime ore del mattino. Nel Mahabandoola Garden, su cui si affacciano il municipio, la Corte Suprema e i vecchi magazzini Rowe & Co., sembrerebbe di essere in Inghilterra, se non fosse per la Sule Paya, un tempio d’oro di oltre duemila anni.
Camminiamo lungo la passerella che si snoda sul Lago Kandawgyi, sopra distese di fiori di loto, accanto a monaci che si riparano dal sole con ampi ombrelli colorati.
Così termina il nostro viaggio in Myanmar. Il forziere è appena stato aperto, il tesoro è per chi si sente pronto a un viaggio vero, di quelli che ti rimangono addosso come l’odore dell’incenso, la polvere della strada o la crema di thanaka.
Dopo serpenti giganti e autisti di tuk tuk convinti di guidare Ferrari, saliamo su un altro autobus senza aria condizionata e facciamo una lunga sauna fino al Monte Kyaiktiyo.
Nel piccolo paese di Kinpun, alle pendici del monte, grandi camion caricano sui loro cassoni tanta gente quanta riescono a comprimerne sulle panche di legno imbottite. Undici chilometri di tornanti simili a quelli delle montagne russe (e infatti i più giovani pellegrini gridano come al Luna Park) sono la via obbligata per accedere al più sacro dei santuari birmani: la Golden Rock, un immenso masso ricoperto d’oro e sormontato da uno stupa, in bilico in cima alla montagna. L’apparenza inganna, e un sasso non è solo un sasso, almeno in questo caso.
Il masso spicca sul panorama mozzafiato della montagna, l’oro buca il blu del cielo terso, un’aura magica circonda le pareti che i monaci e i pellegrini toccano pregando. Nella roccia sembra scorrere un’energia invisibile ma potente, e anche i più scettici restano in contemplazione di fronte a un enigma della fede e della natura.
La Birmania è il paese dell’oro. L’oro di cui sono fatte le persone, che si prendono cura dei visitatori come di bambini sperduti, aiutandoti a salire sull’autobus esatto, indicando il ristorante più vicino, chiedendo se hai bisogno di qualcosa quando ti vedono fermo in mezzo alla strada con un gigantesco punto di domanda sopra la testa. E l’oro delle centinaia di pagode lucenti che ne fanno un tesoro unico al mondo.
Yangon
Ma la pagoda più straordinaria è quella di Yangon. Quando arriviamo di fronte alla Shwedagon Paya, una vera e propria piramide di oro sfavillante, vogliamo credere che sia questo il simbolo del nuovo Myanmar, che faticosamente ma con coraggio procede verso un futuro luminoso lasciandosi alle spalle una lunga storia di dolore.
Quattro entrate principali fiancheggiate da venditori di offerte e statue di Buddha conducono alla grande terrazza dai mirabolanti colori, disseminata di padiglioni e stanze per la preghiera. Camminiamo nel complesso e ci sdraiamo all’ombra di un tempio, guardando la gente che prega, mangia, chatta con lo smartphone e riposa. È un luogo dove si potrebbe trascorrere un giorno intero senza mai smettere di stupirsi.
Yangon esplode di vita, persone, mercati, colori, rumori. I marciapiedi sono invasi da bancarelle e ristorantini di strada e camminare diviene impossibile dopo le prime ore del mattino. Nel Mahabandoola Garden, su cui si affacciano il municipio, la Corte Suprema e i vecchi magazzini Rowe & Co., sembrerebbe di essere in Inghilterra, se non fosse per la Sule Paya, un tempio d’oro di oltre duemila anni.
Camminiamo lungo la passerella che si snoda sul Lago Kandawgyi, sopra distese di fiori di loto, accanto a monaci che si riparano dal sole con ampi ombrelli colorati.
Così termina il nostro viaggio in Myanmar. Il forziere è appena stato aperto, il tesoro è per chi si sente pronto a un viaggio vero, di quelli che ti rimangono addosso come l’odore dell’incenso, la polvere della strada o la crema di thanaka.
Cosa mangiare
La cultura buddista e l’influenza indiana fanno sì che la dieta vegetariana sia qualcosa di comune. La maggior parte dei ristoranti in Birmania è vegan-friendly. Ci sono diversi ristoranti indiani o nepalesi vegetariani. I menu hanno una sezione vegetariana più o meno ricca. Alcune ricette eccellenti sono vegane. Ecco alcuni esempi: Shan tofu: tofu fatto con piselli gialli spezzati invece che con i fagioli di soia. Ha una consistenza più cremosa del tofu normale. Si può gustare fritto, con i noodles, con le verdure Insalata di foglie di tè (Lahpet Thoke): classica insalata burmese fatta con foglie di tè verde essiccate e fermentate, pomodoro, cavolo, cipolle, arachidi, semi di sesamo, noccioline, piselli fritti, aglio, chili e lime. È un piatto croccante, saporito, dal sapore unico. Insalata di pomodori: sembra una semplice insalata, ma non è mai uguale. A volte sarà servita con cipolle, a volte con noccioline, altre volte ancora con aglio, coriandolo e sesamo. Ottima, da provare. Insalata di limone: cavolo, cipolla rossa, limone, chili e sesamo. Insalata di alghe: buona, gustosa e leggera. Alghe condite con lime e chili. Insalata di noodles birmana: noodles, coriandolo, carote, chili. Insalata di riso: riso, pomodori, noccioline, lime. Zuppa di zucca: la migliore che ho mai mangiato, delicata e vegan, ovviamente. Infinite combinazioni di noodles, verdure, tofu e riso: zuppa di verdure; zuppa di verdure e noodles; zuppa di verdure, noodles e tofu; riso fritto con verdure; “hot & sour” vegetables (le mie preferite, verdure con salsa agrodolce). Sbizzarritevi!Dove mangiare
Questi, invece, sono alcuni dei ristoranti vegetariani dove abbiamo mangiato meglio:- Mandalay: Marie-Min, 27th Street (tra la 74th e la 75th). Ottimo curry di tofu, piatti indiani, birmani e occidentali.
- Bagan: Moon, Be Kind to Animals, davanti all’Ananda Temple. Bel giardino, piatti deliziosi, soprattutto zuppa di zucca e curry di tofu Shan.
- Lago Inle: Sin Yawn
- Yangon: Soe Pyi Swar Vegetarian Centre No 50, 13th Street (Middle), Lanmadaw Township, Chinatown. Ha tutti i piatti della cucina cinese fatti vegan con carne e pesce vegetali.