Perché preferire la biodiversità è entusiasmante”.
di Grazia Cacciola
La ricerca dell’alimento dimenticato e della biodiversità non è moda passeggera, è un bisogno di sensorialità, riscoperta e territorialità che tocca diversi aspetti, non ultimo quello nutrizionale. Appassionati di cucina, gourmet, chef ma anche medici e studiosi sembrano essersi uniti nell’entusiasmo per le ritrovate varietà antiche italiane. Nomi come Tumminia, Senatore Cappelli e Roveja sono entrati nel nuovo dizionario di chi ama la biodiversità e ne preferisce le indubbie qualità alimentari e di gusto. La comparsa della grande distribuzione in Italia, come in altri paesi europei, ha portato la maggioranza delle persone a spostare la propria spesa verso uno standard sempre uguale a se stesso, in cui il peperone ha sempre quella forma e quei tre colori ed è una presenza senza stagionalità.
Sono stati i piccoli coltivatori che non hanno ceduto alle lusinghe di un mercato allargato a preservare molte specie, spesso inadatte al paradigma moderno di massima resa e lunga conservazione. Grazie al lavoro e alla passione di molti di questi agricoltori, oggi possiamo assaggiare i sapori tradizionali e dimenticare le selezioni impoverenti che hanno privilegiato, in passato, solo le logiche della GDO. È indubbio infatti che un pane di farina di grano tenero 00 con lievito industriale possa essere pronto in sole due ore e durare, congelato, per mesi. Ma sappiamo ormai che il suo valore nutrizionale è infimo, mentre il peso sulla salute non indifferente. Al contrario, un pane di grani antichi non lievita così facilmente, non è così leggero ma porta con sé una storia di fermenti, impasti, nutrienti che lo rende unico e legato a tutti i nostri sensi. La biodiversità è percepita finalmente come un bene fondamentale per l’uomo e, paradossalmente, sta convertendo anche la grande distribuzione che in qualche modo prova ad adeguarsi, dai prodotti da forno con pasta madre alla proposta di legumi come la cicerchia. In un mercato che ha appena cominciato a scoprire in massa la biodiversità, non è facile però chiarire brevemente tutte le implicazioni di questa scelta dal punto di vista agricolo, nutrizionale, culinario ed economico.
Come orientarsi tra biodiversità e agricoltura biologica, materia prima e prodotto finito
Prima di tutto, attenzione alle definizioni: biodiverso e biologico non vanno sempre a braccetto. Non tutte le varietà antiche, purtroppo, si avvantaggiano di una coltivazione rispettosa dell’ambiente e della salute.
Per chi vuole evitare i pesticidi nel cibo, è bene sapere che, sebbene molte qualità siano state riscoperte e coltivate nell’ambito di progetti per l’agricoltura biologica, il binomio non è automatico. Il farro spelta, per esempio, si trova anche da agricoltura intensiva, così come le cicerchie e i ceci neri.
Per i produttori le cose non sono sempre semplici quando si tratta di coltivare una varietà antica in alternativa a quelle convenzionali, ma negli ultimi anni la burocrazia si è snellita e l’introduzione di varietà biodiverse può essere programmata su base anche annuale.
In Italia la gestione della banca dati e la possibilità di riconoscere autorizzazioni in deroga a utilizzare sementi convenzionali in agricoltura biologica è affidata al CREA SCS ai sensi del D.M. 18354 del 27 novembre 2009. Un percorso che, tutto sommato, è alla portata anche degli agricoltori più piccoli. Ma, come noi dobbiamo uscire dai supermercati, anche i coltivatori devono uscire dai percorsi protettivi e standardizzati dei consorzi e delle multinazionali delle sementi.
Ecco perché un’ottima ragione per consumare questi prodotti antichi ritrovati, oltre agli eccellenti sapori, è anche quella di premiare lo sforzo e l’indipendenza di questi coltivatori italiani. Come sempre però, la presenza di una domanda di mercato ascendente fa sì che si creino delle speculazioni. Lo abbiamo visto per esempio con la questione dei grani antichi che sono certamente meno raffinati, più digeribili e in genere meno ricchi di glutine rispetto al grano coltivato su larga scala, ma non sono certo la soluzione per le intolleranze o la celiachia. Sono solo un tipo di frumento più digeribile, non tutto con un apporto inferiore di glutine, come hanno dimostrato diversi studi. Attenzione anche al prodotto già pronto. Molti panifici purtroppo vantano l’uso di grani antichi ma li miscelano con farine che possono farli lievitare meglio, di solito manitoba. In questo modo c’è un vago sapore di cereali tradizionali, l’acidulato di fondo della pasta madre, ma abbiamo comunque un prodotto raffinato e non sano.
Una caratteristica dei grani antichi integrali, per esempio, è che hanno un peso specifico maggiore e non si gonfiano molto in lievitazione. Una pagnotta integrale o semintegrale può avere la metà del volume e un peso molto maggiore di una creata con farine raffinate! In Italia esistono i controlli sul chicco e sullo sfarinato, ma quelli sul prodotto finale sono pochissimi; e non si chiude mai un panificio perché usa una percentuale di farina bianca maggiore rispetto a quanto dichiarato, perché non è considerato un attentato alla salute. Inoltre è poco probabile che un raro controllo dei NAS vada a verificare questi aspetti. Nella pratica, quindi, possiamo essere piuttosto sicuri di una materia prima biodiversa da agricoltura biologica con filiera accertata, come farine e legumi, ma difficilmente possiamo esserlo di un prodotto da forno o di un piatto pronto.
Possono essere ottimi o pessimi: materialmente non abbiamo mezzi veloci per accertarne la qualità.
Varietà antiche e scelte locali
È bene sfatare anche un altro mito: per quanto alcune cultivar – come ad esempio il farro monococco – risalgano a diecimila anni fa, non abbiamo recuperato proprio le stesse varietà, quelle originali sono andate perse. Non è una mancanza ma semplice evoluzione, ci siamo evoluti noi e si sono evoluti anche i nostri alimenti, a volte in peggio ma molte volte in meglio.
La maggior parte delle insalate di ottomila anni fa erano amare e coriacee, è solo la selezione umana che le ha rese tenere e dolci, così come le cicerchie e la roveja originarie sono state abbandonate quasi del tutto per varietà più recenti che permettevano un raccolto maggiore.
Oggi si considerano “antiche” le varietà antecedenti alla Rivoluzione verde, che coincide con la fine degli anni Cinquanta del Novecento, quando si sono impiegate tipologie vegetali selezionate geneticamente. Nel grano, per esempio, l’intervento genetico era teso ad aumentare la produttività e la forza del glutine, creando così un prodotto povero dal punto di vista nutrizionale ma molto interessante per il commercio. In questo senso possiamo considerare antica la cicerchia ma anche il grano Senatore Cappelli, individuato all’inizio del Novecento.
La nostra scelta nel consumo di varietà antiche dovrebbe essere dettata dal criterio di vicinanza, a sostegno della biodiversità locale. Io per esempio ho scelto un produttore locale, piccolo, che distribuisce personalmente. Il vantaggio è quello del chilometro zero, ma anche quello di vedere con i miei occhi dove viene coltivato e come. Le scorte, con questo metodo, devono essere per forza maggiori, ma il sapore ricompensa largamente la fatica di comprare la farina a piccoli lotti. Se poi si individua un distributore locale, è ancora più semplice.
Certo, il costo cambia. Tre euro al chilo per una farina integrale di farro monococco macinata a pietra e 3,50 euro per il grano duro Senatore Cappelli. Personalmente preferisco panificare mischiandole e usare il grano duro per la pasta fatta in casa e il farro per i dolci. Nella proporzione di metà farro e metà grano duro, ottengo 1700 grammi di pane con 350 grammi di farro, 350 di grano duro e 250 di pasta madre ottenuta con lo stesso mix. Il che significa sostanzialmente che quasi due chili di pane di ottima qualità mi costano circa tre euro.
Ogni tanto entro in qualche supermercato e controllo ingredienti e prezzi con curiosità. Lasciatemelo dire: certe panificazioni da precotti congelati vi costano molto di più e non solo in termini di salute. I produttori locali sono ovunque.
Siamo un paese ricchissimo di agricoltura, anche di agricoltura di valore e piccoli produttori che non si piegano alle logiche di standardizzazione della grande distribuzione. Se il tempo manca e non possiamo girare alla ricerca di produttori locali, ci si può affidare alle filiere certificate. Per esempio Ecor e Alce Nero selezionano produttori locali che praticano solo coltivazione biologica e prediligono varietà biodiverse.
Se è difficile trovare una farina spelta o il pisello roveja di cui abbiamo letto, piuttosto che il riso Rosa Marchetti, sarà facile trovarli riuniti sotto questi marchi o nel recente progetto “Alimenti ritrovati” di Ecor.
I grani antichi
Ci sono tante varietà vicino all’ottimo ma ormai onnipresente è il grano Senatore Cappelli, che è sostanzialmente un grano migliorato con incroci successivi sulla base dell’antica tipologia Rieti (ancora oggi in commercio) incrociata con una cultivar tunisina più resistente sia all’escursione termica che alla gramigna. Il risultato è un grano di elevata qualità, anche se piuttosto recente, con alte caratteristiche di digeribilità e un ottimo apporto di fibre.
All’interno della famiglia dei grani duri antichi sono riapparse di recente altre varianti molto interessanti: il Saragolla, un khorasan ad alta digeribilità, coltivato tra Abruzzo, Basilicata e basso Lazio; il Biancolilla siciliano che non viene ridotto in farina ma utilizzato come grano spezzato per profumatissimi cous cous; il Russello, un altro siciliano ideale per la panificazione perché lievita più degli altri grani antichi; il Timilia o Tumminia, scurissimo, con cui si produce il tipico pane nero di Castelvetrano; il Rieti coltivato soprattutto nelle Marche e in Romagna, capostipite di molte ibridazioni moderne e profumatissimo; il Perciasacchi, un ottimo siciliano dalla farina gialla adatta alla panificazione e che ha dato vita alla selezione del più famoso Kamut®.
Si uniscono a questi il farro monococco adatti anch’essi alla panificazione sebbene lievitino meno del grano. Sono però molto più digeribili, soprattutto per un più basso indice glicemico e un minore contenuto di glutine.
Il farro spelta, di cui abbiamo parlato prima, o Granfarro, vanta ben ottomila anni di storia, elevata quantità di fibre e poco glutine.
Legumi e vegetali
Sebbene tra le varietà antiche la facciano da padrone i frumenti, la nuova ricerca di biodiversità ci porta a riscoprire altri alimenti altrettanto nutrienti e saporiti, tra cui legumi e verdure. Tra le novità degli ultimi anni abbiamo visto comparire con piacere le cicerchie, gustosi legumi che crescono con pochissimo apporto idrico e ricchi di calcio e vitamine del gruppo B oltre che di proteine.
Se vogliamo fare un viaggio curioso nel Neolitico, possiamo provare la roveja, un pisello faticoso da coltivare ma con un gusto simile alla fava e un alto contenuto di carboidrati, proteine, fosforo e potassio.
Una zuppa di roveja è un ottimo piatto unico, così come lo è una pietanza a base di cece nero o della lenticchia di Altamura, tutte varietà di legumi penalizzati dalla Rivoluzione verde e dalla grande distribuzione.
Tra le verdure, ci sono tante novità che vanno scoperte localmente ma tra quelle accessibili un po’ ovunque possiamo trovare il ramolaccio nero, già conosciuto ai tempi dell’impero romano per le sue virtù officinali digestive, astringenti, carminative e purificanti, ottimo per contorni grazie al suo sapore più delicato rispetto alle rape; oppure il fagiolo asparago, un tipo di fagiolino molto lungo detto anche “metro”, dolce e tenero, abbandonato perché poco resistente ai lunghi trasporti e alle celle frigorifere.