L’azzurro delle case di Chefchaouen splende ai piedi dell’aspra cordigliera del Rif come due occhi blu accendono un viso segnato dal sole.”
Testi e foto di Francesca Bresciani
Mi siedo in uno dei tanti cafè in Plaza Uta elHammam, e sfoglio il menù, chiedendomi se riuscirò a trovare qualcosa di vegano da mangiare. Fino al giorno prima, è stato facile.
Tommy ed io siamo partiti dal lago di Como, e abbiamo percorso Francia, Spagna e Gibilterra per arrivare fin qui, nell’esotico e affascinante Marocco. Il sito www.happycow.net ci ha suggerito i ristoranti dove scoprire il lato cruelty-free di Perpignan, Barcellona, Valencia, Almeria, Gibilterra, ma ora tocca a noi scovare il Marocco che cucina nel rispetto degli animali.
Mi basta un secondo, e subito sorrido. Il locale offre una selezione di piatti vegetariani, in realtà tutti vegani, fatto salvo per un’omelette. Ordino il menù végétarien, e mi lascio sorprendere. Un uomo sorridente porta del fragrante khubz, una sorta di pane pita cotto nel forno a legna, croccante all’esterno ma soffice come una nuvola all’interno. E’ servito già tagliato, insieme a olive nere, olive verdi e harissa, una salsa piccante a base di peperoncino rosso fresco, aglio e spezie, a cui viene aggiunto dell’olio d’oliva. Ci dissetiamo con un bicchiere di asir limun, succo d’arancia appena spremuto. Mi basta un sorso, ed è come assaggiare il sapore dell’estate. Mentre svuoto la ciotola delle olive, mi viene portato un piatto di verdure miste: barbabietole, pomodori, cetrioli, patate, cipolle crude, peperoni verdi, carote, riso, profumati da prezzemolo e una fetta di arancia. Il gusto di ogni singola verdura mi fa temere il momento in cui tornerò a casa e rimpiangerò il sapore di una vera carota o un vero pomodoro.
In Marocco, infatti, non c’è nemmeno bisogno di chiedere se la frutta e la verdura sono OGM, perché la maggior parte dei prodotti agricoli è coltivata secondo tecniche tradizionali con il solo aiuto di Madre Natura. Un sogno, vero?
Dopo l’insalata, un ragazzo spunta dalla cucina portando una tajine, la tradizionale terrina di terracotta che dà il nome al piatto tipico del Marocco, impreziosita con dello
smalto cobalto e bianco. La appoggia sul tavolo di legno, solleva il coperchio della tajine come a voler svelare una magia. Uno spettacolo di verdure rilascia improvvisamente il suo profumo inebriante, rubandoci un “Oh!”. Zucchine, carote, cavolfiore, patate, olive e cipolle sono esaltati dalle spezie: cannella, zafferano, curcuma, zenzero, aglio e pepe. Penso di essere stata davvero fortunata e rido tra me e me, pensando a tutti quelli che mi chiedono sempre come faccio a non morire di fame quando viaggio.
Dulcis in fundo, il dessert, ovviamente: un piatto di orange à la canelle, fette di arancia spruzzate di cannella e acqua di fiori d’arancio, un tripudio di dolce freschezza. Ma non puoi dire di aver terminato un pasto se non sorseggi il famoso thé b’na na, il tè alla menta, la cui preparazione è considerata una vera e propria arte e che, una volta riprodotto a casa, si rivelerà un vero fallimento. Forse perché quello che rende ogni bevanda o piatto che assaggerò in Marocco così buono è l’atmosfera del Marocco stesso.
Lasciamo Chefchoauen con gli occhi pieni di blu e un giardino dell’Eden nella pancia. Quando arriviamo a Fès, siamo stanchi e non abbiamo voglia di avventurarci nella Medina per cercare un ristorante. Applico una delle mie regole di vegan-travelling, ossia chiedere informazioni e consigli alla gente del posto, molto più preparata e interessante di una guida turistica o un sito internet. Anche se è giusto dire che, prima di partire, ho passato qualche serata a informarmi sul Marocco, la sua cultura, la cucina, le tradizioni, leggendo guide e blog di viaggiatori. Documentarsi aiuta a sapere cosa chiedere e cosa cercare quando si viaggia, e a evitare brutte sorprese. Il concierge del nostro hotel, gentile come tutti i marocchini che abbiamo incontrato durante il nostro viaggio, ci suggerisce un locale a pochi metri, nella Ville Nouvelle. E’ un posto moderno, alla moda, travestito da Europa. Ordino una pizza senza formaggio su cui il generoso pizzaiolo fa cadere una pioggia di insalata, funghi, pomodorini e zucchine grigliate e un’insalata di avocado condita con del pregiato
olio di argan. Non sarà una cena tipica, ma chiedere una pizza vegana è stato facile come bere un altro bicchiere di succo d’arancia.
Il giorno dopo, ci avventuriamo nella Fès el-Bali, la Medina. Ci affidiamo a un’improbabile guida barcollante, che deve fare il pieno ogni mezz’ora con della buona grappa nascosta nella sua ampia jalaba grigia da maestro jedi. La Medina non è solo il cuore brulicante di vita di una città antica come le storie sussurrate ai bambini dagli anziani, ma un vero e proprio viaggio per i sensi, un giro su montagne russe di odori, colori, rumori. Camminiamo tra vicoli stretti, schivando sacchi di spazzatura, fino a quando siamo spinti in una bottega che sprigiona meravigliosi profumi. Una ragazza ci fa accomodare su un divanetto
di velluto, per dare inizio allo show delle spezie, aprendo, uno dopo l’altro, piccoli vasetti preziosi e stordendoci con zenzero, cannella, cumino, zafferano, mélange di spezie che nemmeno riconosco, poi gelsomino, mughetto, rosa.
Sventola sotto il nostro naso essenze e olii, spiegando che
l’olio di argan viene prodotto interamente da cooperative
femminili. In men che non si dica, ho un flacone di olio purissimo nella borsa. Usciamo dalla nuvola di profumata beatitudine, per entrare nell’incubo di ogni amante degli animali: la conceria Chaouwara. L’odore delle pelli e delle tinture è penetrante, perfora le narici e stringe lo stomaco in una morsa soffocante. A poco servono le foglie di menta che ci sono offerte per coprire la puzza del sangue. Vivere il Marocco significherà, molte volte, chiudere gli occhi e cercare di non guadare, di non sentire, passando davanti alle numerose macellerie che appendono carcasse di animali appena scuoiati, alle pollerie dove gli animali sono uccisi sul momento, ai ristoranti sulla strada, dove sono mostrate con orgoglio teste di capra destinate a finire in pentola.
Per fortuna, ci attende la via delle spezie. Montagne di spezie dai colori vibranti, arcobaleni di polveri finissime, che fiammeggiano l’una accanto all’altra. I commercianti giocano con i colori della preziosa mercanzia come pittori con una tavolozza di tempere, per invogliare i turisti a comprare il segreto dei sapori unici della cucina marocchina. Una ragazza mi chiede se voglio acquistare le quaranta spezie, un mix incredibile per “chi non sa cucinare”.
Nei giorni seguenti lasciamo il caos delle città per spingerci verso sud, nel Marocco meno battuto. Facciamo tappa a Midelt, una piccola cittadina dove sostano i viaggiatori diretti al deserto, e dormiamo in un riad, una specie di bed&breakfast marocchino. Non essendoci ristoranti vicini, mi premuro di domandare alla padrona di casa se è possibile avere una cena vegana, spiegandole cosa significhi questa parola mai sentita. La ragazza sorride, dicendo:“Nessun problema, abbiamo zuppa, cous-cous, tajine, dessert totalmente vegetariani. Se vuoi controllare, sei la benvenuta in cucina”. Non me lo faccio ripetere due volte, mi affianco alla cuoca. Lascio solo Tommaso tra gli aranci del giardino di casa in compagnia di un gatto rosso, a imparare a come fare del tè verde una forma di meditazione. Mouna mi spiega come bisogna lavare il cous-cous in acqua fredda e lasciarlo riposare, mentre si prepara il brodo di verdure e spezie (che cambiano a seconda delle zone) con cui poi verrà cotto a vapore il cous-cous. E’ un procedimento lungo, attento, affascinante, al termine del quale le verdure bollite e insaporite con diverse spezie sono magistralmente disposte a stella su un letto di soffice cous-cous, in una tajine decorata. In una piccola cucina di una città poco nota del Marocco, il piatto più conosciuto della tradizione marocchina svela i suoi segreti e i suoi misteri, diventando l’inizio di un’amicizia e la scusa per scattarsi delle foto. La sera, su una tovaglia viola tra candele bianche, scorre sotto i nostri occhi il solito menu marocchino vegano, a cui ci abitueremo con gran piacere. Il pane, le olive e l’harissa precedono l’insalata, che a volte è simile alla nostra insalata mista, altre volte è la tipica insalata marocchina, costituita da cipolle, pomodori e cetrioli (o peperone verde) tagliati a cubetti molto piccoli e serviti con olio evo, limone e sale, con fette d’arancia come decorazione. Oltre all’harissa, si possono trovare anche altre salse: mqalli, fatta con zafferano, olio e zenzero e msharmal, con zafferano, zenzero e un po’ di pepe. Il cous-cous fa da piatto principe, e basterebbe da solo a sfamarci per un giorno intero. A Casablanca è preparato con sette verdure e nelle altre città è sempre diverso, a seconda della fantasia, tradizione, o semplicemente degli ingredienti che il cuoco ha in cucina. Segue la tajine, che come il cous-cous può variare da un posto all’altro. La migliore che ho provato aveva zucchine, patate, carote, piselli, ceci, uvette e olive nere, immerse in un brodo così saporito da rendere inevitabile la scarpetta con il khubz. Lo stufato di carciofi o cardi, chiamato kennaria, può essere preparato senza carne, basta chiedere in anticipo al cuoco. Lo stesso vale per l’harira, una zuppa di legumi. Come dessert, ci sono sempre le fette di arancia spolverate di cannella. Le colazioni non sono da meno dei pasti principali: pane ancora caldo, su cui spalmare marmellate di fico, fragole o arancia, caffè, tè, succo d’arancia, olive nere, cereali, frutta (albicocche, ciliegie, fragole e pesche in primavera; angurie d’estate; fichi, melagrane e uva in autunno; arance e mandarini in inverno; mandorle, noci, banane e limoni tutto l’anno).
Proseguendo verso il deserto, e addentrandoci nel Marocco meno turistico, temevo che avremmo avuto qualche problema a mangiare vegan. Mi sbagliavo. Il nostro itinerario ha toccato Merzouga, dove ci hanno servito un Himalaya di verdura, su un tavolino tra le dune; le Gole del Todra, in cui abbiamo mangiato la miglior tajine di verdure del viaggio; Ouarzazate, dove ci siamo concessi una pizza per prenderci una pausa da tajine e cous-cous.
Ma il meglio doveva ancora venire: Marrakesh.
Marrakesh non è una città, è una festa. Andiamo dritti a Jemaa el-Fna, la piazza principale della più famosa città marocchina, dove un incessante spettacolo all’aria aperta intrattiene turisti provenienti da tutto il mondo. Mi allontano dagli incantatori di serpenti e gli ammaestratori di scimmie, e punto i banchetti dei succhi di frutta. Per appena 4 dirham, circa 40 centesimi, si può affrontare il caldo soffocante con un succo di arancia appena spremuto. In realtà se amate i succhi, non dovete preoccuparvi, li troverete in ogni città, e di ogni tipo: arancia, limone, fragola, avocado, mango, banane, e molti altri. Mi butto nei souq, che già avevo visto nei giorni precedenti ma che qui sono un carnevale di colori e sapori. Vette rosse, gialle e arancioni di spezie, montagne di olive di ogni sfumatura di verde, carretti che vendono khubz appena uscito dal forno a ogni angolo, sorprendenti bancarelle di frutta secca, che offrono chili e chili di datteri, fichi secchi, albicocche disidratate, noci e mandorle semplici o caramellate, condite con sale, cannella o zucchero di canna. Se volete uno spuntino, potete prendere dei ceci tostati, serviti in cartocci e insaporiti con cumino e sale. Per non parlare della frutta e delle verdure fresche, immancabili ovunque. E’ ora di pranzo, e so dove andare. Navigando online, ho scoperto l’Earth Cafè, l’unico ristorante vegetariano di tutto il Marocco. Si trova a pochi passi dalla Jemaa el-Fna, in una via stretta illuminata dal sole (2, Derb Zawak, Riad Zitoun Kedim, Medina). Il posto è una perla nascosta nel trambusto della città. Costruito su tre piani, dipinto totalmente di arancione è arredato con il tipico gusto del luogo che lo ospita. Il menu è scritto su un grande specchio, ed è diviso in due parti: vegetariano e vegano. Ordiniamo degli involtini primavera, della pasta sfoglia con verdure e un veggie burger. Quando arrivano i tre piatti ci accorgiamo che, nonostante i nomi differenti, sono la stessa ricetta presentata in modo diverso. La verdura è saporita e ben cotta, la pasta leggera, e sapere di essere nell’unico locale del Paese dove sono preparati piatti dichiaratamente vegan dà al pranzo una nota di allegria.
L’ultima tappa del nostro viaggio è Casablanca. Dopo un caffè d’obbligo al Rick’s Cafè, vagabondiamo per il centro alla ricerca di qualcosa da mangiare. Casablanca è una
città moderna, dove possiamo spezzare la monotonia del cous-cous. Nella stazione dei treni scopriamo per caso una food court. Passiamo velocemente in rassegna i ristoranti delle varie catene, scartiamo l’italiano, il cinese, la pasticceria e capiamo subito che Wrap N’ Roll fa al caso nostro. Un burrito di farina integrale riempito con insalata, pomodoro e avocado e un succo di fragola e mango sono la perfetta cena leggera da godersi in riva al mare, una sera illuminata da stelle tremolanti di poesia. Nelle città non manca mai la pizza, che può essere chiesta senza formaggio e con gli ingredienti preferiti.
Il Marocco ci ha mostrato la bellezza mozzafiato dell’Atlante, delle sue dune, delle colline, delle gole dalla terra rossa, del suo cielo vasto e pulito, come il mare nostrum che infrange onde spumose sulle sue coste armoniose. Noi abbiamo dimostrato che nutrirsi nel rispetto della vita è possibile anche lì, dove un viaggiatore che ama gli animali può esplorare il Paese, conoscere i suoi abitanti e gustare i frutti di una terra meravigliosa.